Don Stra, padre degli ultimi tra guerra e povertà

Il giovane Attilio Stra, formato da un cristiano dalla testimonianza straordinaria, don Andrej Majcen, (per il quale la Santa Sede nel 2000 ha dato il via libera alla causa di beatificazione e di canonizzazione) e ancora prima da don Guglielmo Balocco, missionario in Birmania, nasce nel 1936 a Cherasco, studiò a Chieri e a Torino. La sua professione perpetua la pronunciò a 23 anni a Tram Hanh, in Vietnam, per poi essere ordinato sacerdote a Torino.

Faceva parte delle generazioni di seminaristi che nel Secondo dopoguerra fiorirono in Italia per essere donate alle missioni. Già dal 1956 si trovava in Estremo Oriente. Don Stra fu testimone dell’evoluzione tremenda della guerra fra Nord e Sud del Viet-Nam, fino alla cacciata da Saigon nel 1975 di ogni straniero. Con il cuore straziato, don Stra dovette salutare la gente che aveva aiutato per vent’anni. Prima di rientrare in Italia, per un periodo rimase prigioniero in Cambogia e dovette poi transitare per la Russia. “Non voglio ricordare il Vietnam, voglio dimenticare il Vietnam” diceva ai confratelli poiché la memoria di quell’esperienza lo faceva soffrire anche a distanza di anni. Era stato uno dei primi a porre in quel Paese le basi delle opere salesiane; ebbe il grande merito di costruire l’Istituto Don Rua, tuttora esistente, nella città di Dalat. “Era come un buon padre, amato da tutti” si è scritto della sua azione pastorale.  

La congregazione salesiana lo destinò alla missione di Haiti. Arrivò a Cap-Haïtiennel 1978 in qualità di direttore della Meison Populaire de’Education Salèsiens. Lì verrà aperta una scuola primaria, una professionale, un centro agricolo insieme con l’oratorio festivo e una grande aula per i ragazzi di strada: un piano di interventi esemplare per la situazione di Haiti dove la crescita demografica è incessante. “Padre Attilio ci ha commossi per la sua sincerità e semplicità. Egli persevera giornalmente nella miseria più profonda, e soprattutto egli ha saputo animare una squadra dinamica” riferisce un documento datato marzo 1987. 

Era difficile operare per il bene in un contesto di politica corrotta e violenta, in un Paese impoverito dalla condizione di sudditanza degli abitanti agli interessi di potenze straniere. Quando nel 1983 Giovanni Paolo II visitò l’isola, anche don Stra registrò l’appello lanciato dal Papa: “C’è bisogno di cambiare le cose qui”.  

Con anticipo su quanto poi sarebbe maturato anche in altre parti del mondo, i salesiani affrontavano la condizione estrema dei ragazzi di strada. Un documento, che definisce il piano di lavoro per l’anno 1988 del progetto “La kay nou” (la nostra casa), descrive con precisione l’impegno assunto nei loro confronti: “In questo dormitorio i ragazzi della strada potranno venire la sera per lavarsi, mangiare un pasto caldo e dormire la notte. Un’equipe li accoglierà e sarà presente fra di essi per ascoltarli, amarli”.

A complicare la situazione politico-sociale, accaddero sull’isola eventi naturali devastanti: l’uragano Jeanne nel 2004, il terremoto del 2010, l’uragano Mattew nel 2016, un altro terremoto nel 2021. Per l’evento sismico, il secondo più grave nella storia del mondo, furono contati 220mila morti. Tra le vittime, gli allievi della scuola salesiana, crollata insieme alla residenza dei missionari di La Kay. Don Stra si trovava in quella casa e fu travolto dal crollo della palazzina di due piani, rimanendo sepolto fra le macerie ma protetto da una ringhiera che aveva respinto il materiale precipitato. Con la gamba bloccata dai calcinacci, alle successive scosse sismiche potè liberarsi e trovare da sé il modo di uscire. 

La ripresa dopo la catastrofe naturale non fu accompagnata da interventi da parte del mondo politico locale e internazionale, anzi consentì l’instaurazione di un potere in mano alle organizzazioni criminali. I segnali che don Stra inviava anche a Missioni Don Bosco, intervenuta assieme ad altre istituzioni salesiane per la ricostruzione delle case crollate, diventarono sempre più drammatici. Don Stra negli ultimi tempi aveva assunto il compito che gli consentivano la sua età (aveva ormai superato gli 80 anni) e il fatto di essere l’ultimo missionario europeo rimasto ad Haiti: quello di farsi voce degli ultimi, che i governi e i media ormai ignoravano se non nei momenti di emozione per le crisi umanitarie. In questo sito abbiamo dato voce alla sua testimonianza, estrema prova della sua generosa e indistruttibile fedeltà ai giovani di Haiti: “fino all’ultimo respiro”, come hanno scritto i confratelli haitiani ai suoi funerali. 

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