Viaggio missionario in Siria – Tappe a Damasco, Kafroun e Aleppo
1° giorno -Da Beirut a Damasco
Siamo arrivati in Siria, a Damasco.
È la prima volta nella mia vita che mi trovo in un paese in stato di guerra. Qualcuno dei potenti l’ha definito “uno stato canaglia” e l’ha inserito in una lista nera… francamente sono scettico, molto. La gente che incontriamo è cordiale e gentile… non vedo canaglie in giro.
Per arrivare in Siria siamo costretti ad un valico via terra, lo spazio aereo è interdetto. Quindi arriviamo a Beirut, in Libano, dove ci vengono a prelevare i salesiani di Damasco e ci portano a casa loro. Appena usciti dall’aeroporto di Beirut vedo ragazzini che vendono bottigliette d’acqua agli incroci, sono poveri e sporchi.
Don Munir, il direttore di Damasco che guida il pulmino, mi dice che sono siriani, figli di gente fuggita dalla guerra e riparata in Libano. Lo dice con sofferenza, e subito anch’io mi sento a disagio, perché percepisco la condizione di povertà forzata e profonda miseria nella quale si trovano a vivere, chissà per quanto tempo. Scorgo una ragazzina di dieci-dodici anni aggrappata al predellino di un camion che contratta con un camionista. Spero gli venda solo l’acqua e non stia trattando per vendersi lei stessa…
Il primo impatto non è dei migliori che si possa sperare. Dopo alcune ore di viaggio, e sbrigate le pratiche burocratiche alla dogana libanese e siriana, ci troviamo sulla strada che porta a Damasco, la capitale del paese. La città ha avuto scontri fra esercito regolare e ribelli affiliati all’ISIS, ma non ha subito una distruzione totale come è stato ad Aleppo. Ora sono alcuni mesi che c’è una relativa calma e la vita torna a scorrere in una parvenza di normalità. I check-point dell’esercito sono ovunque. Ogni pochi chilometri ne troviamo uno. Dobbiamo fermarci. Poiché è buio dobbiamo spegnare i fanali davanti al militare che ci intima lo stop, per non accecarlo, e mostriamo il lasciapassare che ci è stato rilasciato dal Ministero dell’interno. Sembra la formula magica che ci permette di passare senza mai subire un controllo, anzi i militari allargano il viso in un bel sorriso e ci salutano. Meno male!
Arrivati a casa, dopo una cena di benvenuto, ce ne andiamo a dormire. Prima che Morfeo ci culli fra le sue braccia sentiamo dei botti, ma non sono quelli di capodanno. Sono colpi di fucile o di mortaio. Li sento anche all’alba, appena mi sveglio per la luce che entra dalla finestra. Mio Dio, sono in un Paese in cui c’è gente che spara, e gente che muore. Orrendo.
2° giorno – Damasco
La comunità salesiana di Damasco è composta da quattro sacerdoti di provenienza diversa: due sono siriani originari di Aleppo, uno è italiano (il più anziano) e il quarto è un missionario fresco di incarico, arrivato dalla Spagna. Sono felicissimi di accoglierci e fanno di tutto per metterci a nostro agio. Siamo fra i rarissimi ospiti che ormai fanno visita al loro paese. Per incontrare gente nuova sono loro che devono uscire dalla Siria, nessuno si azzarda a vanire qui. Gestiscono un bellissimo oratorio frequentato da 1300 bambini, ragazzi e giovani. Tutti cristiani, di diverse confessioni e riti. Lo spazio del cortile e delle sale dove riunirli è piccolo e non ci stanno tutti. La soluzione è quella dell’oratorio aperto a giorni alterni per fasce di età. Il venerdì pomeriggio tocca ai giovani delle scuole superiori e agli universitari, al sabato mattina ai piccoli delle elementari e al pomeriggio a quelli delle medie. La cosa più curiosa è che l’oratorio usa degli autobus che, girando per la città, nei punti prestabiliti prelevano i ragazzi in attesa e li portano all’oratorio e così poi per il ritorno a casa. È un modo sicuro per venire all’oratorio in una città in cui i mezzi pubblici praticamente non funzionano più e il rischio per le strade è davvero alto.
Anche noi siamo saliti sul pulmino che girando per la città ne raccoglie alcuni. Salgono per primi dei giovanotti di sedici/diciassette anni. Sono tirati a lucido. Una zaffata di dopobarba da pochi soldi invade l’abitacolo. Capiamo perché sono così curati alla fermata successiva. Salgono questa volta alcune ragazze della medesima età. Curatissime, truccate al punto giusto, ben vestite. Davvero carine. Nel cortile dell’oratorio incontriamo i giovani più grandi. Si parla in inglese. Sono curiosi e desiderosi di salutare, parlare, comunicare con noi. Sono belli e ben vestiti. D’altro canto come non potrebbe essere così, visto che si trovano insieme il venerdì pomeriggio per scambiare quattro chiacchiere in tranquillità, condividere un pezzetto di vita e il loro cammino di fede, e poi perché sono giovani e si guardano, si conoscono, si corteggiano.
Che bello vedere i giovani che nonostante il dramma del proprio paese, guardano al futuro e sognano. È giusto. Come potrebbe essere altrimenti? È il loro tempo e se lo devono prendere, nessuno glielo può strappare, nemmeno una guerra sporca e complicata come quella che altri, in altre parti del mondo, hanno interesse a mantenere chissà ancora per quanto tempo.
Leggi le storie dei giovani di Damasco che abbiamo raccolto all’Oratorio Don Bosco
3° giorno – Damasco
Continuiamo la nostra visita a Damasco, in Siria. Ascoltiamo storie di dolore, distruzione e morte, ma vengono da persone che non hanno smesso di sperare e sognare la pace per il loro paese. Attraversando la città ci avviciniamo ai quartieri periferici in mano ai ribelli dell’ISIS. Quello che vediamo è impressionante. Palazzi accartocciati su se stessi, muri anneriti dal fumo, buchi su muri che un tempo erano di camere, soggiorni, case di gente comune.
Per qualche ora abbiamo fatto i turisti nella città vecchia di Damasco, la cittadella racchiusa dentro le mura romane, dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.
Andiamo anche alla casa di Anania, il cristiano che accoglie Paolo di Tarso cieco, a cui è apparso Gesù Risorto e che poi lo battezza, introducendolo così nella prima comunità dei cristiani. Per arrivare alla casa di Anania percorriamo una antica e stretta via circondata da negozietti, bar e da laboratori di artigiani che producono souvenir per i turisti, anche se in giro gli unici eravamo noi. Ad un tratto un colpo di mortaio forte, perché vicino, ci paralizza tutti. Nessuno dice più una parola, non un passo. Ci guardiamo negli occhi per rassicurarci. Ci pensa un signore seduto al tavolo di un bar a dirci con un gesto della mano che non è nulla, che possiamo andare avanti. E così facciamo, riprendendo il nostro giro turistico. Il giorno seguente abbiamo ricevuto la notizia che poche ore prima un colpo di mortaio era caduto su quella viuzza, fra qui piccoli e caratteristici locali ed aveva fatto sette morti. Non ci sono parole per esprimere lo sgomento di fronte a questa notizia. Noi passeggiavamo lì, nello stesso posto e alla stessa ora, ma per fortuna il giorno precedente.
4° giorno – Kafroun
Conclusa la visita a Damasco e salutati i giovani e i salesiani di quella città ci dirigiamo a nord, alla seconda meta del nostro viaggio: l’opera salesiana di Kafroun, vicino alla grande città di Homs. Ogni città siriana ha pagato o sta pagando il suo prezzo di distruzione e orrore a causa di questa guerra senza senso in cui, soprattutto nei quartieri di periferia, ad un certo punto ha preso il controllo l’ISIS causando la fuga precipitosa della gran parte della gente comune e le forze regolari dell’esercito hanno dovuto, o sono tutt’ora impegnate ad ingaggiare una battaglia di casa in casa per riportare la situazione sotto controllo.
Kafroun si trova in una zona montuosa, ad ovest della Siria, abbastanza vicino al confine con il Libano e il Mar Mediterraneo. Il paesaggio cambia sensibilmente man mano che saliamo, il deserto di rocce e terra arida lascia spazio a campi coltivati e boschi. L’aria è più fresca e per questo è un luogo di villeggiatura per i siriani che abitano nelle grandi città dell’interno. Per arrivare saliamo in una strada che attraversa piccoli villaggi, molti dei quali sono abitati quasi del tutto da cristiani. Vediamo sui lampioni della luce che sono attaccati dei cartelli con volti di giovani. Chiedo se ci sono le elezioni immaginando che siano i candidati a sindaco del paese. La risposta mi riporta nel dramma del paese che stiamo visitando. Sono martiri civili, cioè soldati uccisi al fronte interno nella guerra con l’ISIS, che abitavano in quel villaggio. Mi viene in mente la mia terra, il Veneto, attraversato dal fiume Piave, dove in ogni paese della zona si trova un monumento ai caduti in guerra, la prima guerra mondiale, che in quelle zone aveva il suo fronte più caldo. Da noi sono lapidi in marmo bianco con lunghi elenchi di nomi, appese ai muri del municipio o collocate in cippi di pietra con colonne spezzate e circondate da cipressi ad evocare la fine prematura e il sonno della morte. Qui sono volti in foto stampate su cartelloni mossi dal vento, che penzolano dai lampioni come impiccati esposti alla pietà del popolo.
5° giorno – Kafroun
La casa di Kafroun serve alle opere salesiane della Siria e del Libano come punto di riferimento per i campi scuola dei ragazzi e dei giovani e per le giornate formative dei salesiani e dei membri della Famiglia Salesiana. È situata in una bella posizione elevata, il panorama che si gode è bello, l’aria è fresca e pulita. Il luogo ideale per un tempo di riposo e riflessione spirituale. Si tratta di una presenza salesiana che nasce nel 1992 ma dura solo poco meno di vent’anni. Infatti nel 2009 i salesiani chiudono la comunità e usano la casa solo come casa per le vacanze. Allo scoppiare della guerra però l’hanno aperta per due anni a tante famiglie di Aleppo, sfollate a causa dei combattimenti. La cosa singolare è che nei pochi anni di presenza stabile della comunità salesiana si è formato un gruppo di cooperatori salesiani, papà e mamme, che continuano a portare avanti lo stile educativo di Don Bosco. Nel fine settimana sono loro che da soli aprono la casa ai ragazzi della zona e animano l’oratorio, così come la S. Messa domenicale che viene sempre celebrata nella cappella dell’istituto. Abbiamo partecipato anche noi all’Eucarestia domenicale frequentata da circa duecento persone, in gran parte ragazzi e giovani. L’atmosfera è semplice e cordiale, tipica dei luoghi di campagna e di montagna dove si conoscono tutti. Si nota che la gente qui è più serena rispetto alla città. Qui i ribelli non sono arrivati. La vita scorre più lenta, anche se le conseguenze della guerra si fanno sentire anche da queste parti perché le foto dei martiri civili, la presenza di famiglie di sfollati, i posti di blocco ad ogni incrocio stradale e la mancanza di un lavoro stabile toccano ogni famiglia del luogo.
6° giorno – Verso Aleppo
Abbiamo lasciato la casa di Kafroun e ci siamo diretti in auto ad Aleppo. Siamo costretti ad un giro molto ampio a causa della chiusura dell’autostrada che da Homs va ad Aleppo, perché attraversa un territorio ancora sotto il controllo dei ribelli. Da Homs quindi ci dirigiamo verso ovest sulla statale per Raqqa e dopo circa tre ore di viaggio incrociamo la strada che da Palmira sale a nord verso Aleppo, e la imbocchiamo. È questa l’antica via della seta, ci dice l’autista che guida veloce e sicuro su un nastro di asfalto stretto e nero che serpeggia in mezzo ad un deserto di erba bassa e secca, su un terreno lievemente ondulato.
Sto percorrendo la via della seta, ma quello che vedo non sono carovane di cammelli carichi del prezioso tessuto e di spezie e oli profumati che provengono da oriente. Vedo in continuazione ai lati della strada carcasse di automezzi incendiati ed arrugginiti. Sono carri armati, autocisterne di carburante, automobili, persino dei pullman. Sono quel che resta degli attentati che i terroristi affiliati all’ISIS, ad Al Qaida e ad altre bande di ribelli hanno compiuto negli anni scorsi e che ancora tentano di fare, nonostante il serrato controllo dell’esercito. Siamo in guerra ed è evidente da quello che i nostri occhi vedono di continuo. Sul primo tratto di strada verso Raqqa incontriamo mezzi pesanti in senso opposto che trasportano carri armati di ritorno dal fronte appena liberato. I militari dell’esercito, per difendersi dalle incursioni notturne dei terroristi, hanno improvvisato dei fortini, molti dei quali ricavati dalle ex stazioni di rifornimento di carburante. Ci hanno costruito con le ruspe un terrapieno tutt’attorno. Ai quattro lati ci sono le canne delle mitragliatrici che sbucano da un contrafforte fatto di sacchi di sabbia. Su ognuno di essi sventola la bandiera della Siria. Ora non incontriamo più nessuno ai lati della strada. Non ci sono venditori improvvisati di carburante, né commercianti di frutta o di bibite per i viaggiatori. Solo mezzi militari, camion stracarichi di materiali da costruzione che si dirigono verso Aleppo, poche auto di civili. Non ci sono posti per fermarsi. L’autista ci dice che non conviene fermarsi e tanto meno uscire dalla strada asfaltata, qualche auto è già saltata sulle mine poste ai lati della strada. Andiamo avanti finché non arriviamo alle porte di Aleppo e la situazione comincia a cambiare perché vediamo edifici distrutti, ma anche contadini che lavorano la campagna. Ritornano le bancarelle di frutta e i venditori ai lati della strada. Tiriamo un respiro di sollievo che però si spegne in gola quando vediamo i quartieri ad est della città. Sono palazzi, anzi erano palazzi, perché quel che resta è solo la testimonianza di una brutalità e disumanità che non si può spiegare. Alcuni sono ancora in piedi e integri, ma non c’è più un vetro alle finestre. Danno proprio l’impressione di un quartiere fantasma. Vediamo però che in qualche terrazzo c’è la biancheria stesa ad asciugare, segno che in quell’appartamento ci sono tornati ad abitare. Altri palazzi invece hanno le facciate che sembrano graffiare dalle unghie gigantesche di un drago sputa fuoco. I muri sono anneriti, le colonne in cento armato tutte storte, i muri sventrati che lasciano vedere all’interno un lampadario che penzola nel vuoto di un quinto piano.
7° giorno – Aleppo
Stanchi ed emotivamente provati, dopo molte ore di viaggio arriviamo all’oratorio salesiano di Aleppo. L’accoglienza è calorosa e familiare. C’è aria di festa per gli ospiti italiani che sono venuti. Siamo attesi e si vede. Ancora una volta i giovani siriani ci danno una bella testimonianza di cosa sia la civiltà, la buona educazione, il rispetto dell’altro e il desiderio di conoscerlo e starci volentieri insieme.
La casa salesiana si trova al centro di Aleppo, ma sulla parte ovest della città. Non è stata assediata dai ribelli (mancavano ancora poco più di cinquecento metri per trovarsi sulla linea del fronte di scontri furibondi) e per questo non vediamo attorno a noi la distruzione della zona est della città, che abbiamo appena attraversato. L’oratorio salesiano si trova in un grande edificio in cui convivono insieme i salesiani, una scuola superiore dello stato, una tipografia privata, la parrocchia greco cattolica ed una scuola, anch’essa greco cattolica. Siamo praticamente in un “condominio” di attività diverse.
I salesiani della comunità sono quattro. Due sono appena arrivati ad Aleppo, mentre gli altri due ci hanno vissuto tutti gli anni della guerra. Può sembrare strano, ed effettivamente lo è, ma la nostra opera educativa non ha mai smesso di essere un normale oratorio aperto tutti i giorni ai ragazzi cristiani della città. E la straordinarietà sta proprio in questa ordinarietà. L’edificio non è mai stato colpito direttamente (a parte un razzo che è entrato nella stanza accanto alla camera del direttore. I mattoni della parete gli sono arrivati addosso, senza fargli alcun male). Fatto questo che i salesiani del posto non hanno mai denunciato alle autorità perché le spie dei ribelli che carpiscono informazioni, se avessero trasmesso ai terroristi che il colpo era andato a buon fine, ne avrebbero mandato altri di razzi… Non dicendo nulla e riparando in fretta e furia il buco sul muro esterno non ci sono state altre sorprese di questo tipo.
La giornata l’abbiamo terminata insieme ad una cinquantina di giovani universitari che si sono trovati insieme in oratorio per stare in compagnia e divertirsi un pochino in serenità. Don Pier, il neo direttore della casa, mi ha chiesto di dare la Buona Notte, il pensiero che Don Bosco e dopo di lui tutti i salesiani del mondo rivolgono prima di andare a letto a giovani e confratelli. Ero commosso nel vedere tanta serenità e gioia in loro. Li ho ringraziati proprio per la loro testimonianza di autentico spirito di famiglia e di vita cristiana, e non sono riuscito a dire altro.
8° giorno – Aleppo
Siamo andati nei quartieri di Aleppo distrutti durante i momenti più cruenti della guerra. Ci ha accompagnati George, un giovane cooperatore salesiano di 35 anni, in servizio militare permanente, reclutato all’inizio del conflitto. Nel suo plotone è stato scelto con l’incarico di assistere i feriti di guerra, proprio perché è un cristiano e ai cristiani viene riconosciuto di essere attenti agli altri in modo speciale… ce lo ha insegnato Gesù come si fa, raccontandoci la parabola del buon samaritano.
George ci ha confidato che la cosa più difficile è andare a dire ai genitori che il loro figlio è morto in guerra: “Ogni volta prego il Signore perché non so cosa dire loro, come dirlo, e gli chiedo che mi metta Lui in bocca le parole giuste. È difficile e sto male, ma penso che questo sia quello che vuole ora il Signore da me e lo compio con amore e con dedizione, anche se costa”.
Scortati da George, in mimetica militare ed accompagnati da don Pier, il direttore della casa di Aleppo, aleppino di nascita pure lui, entriamo nella città vecchia. Siamo su un viale del centro, affollato di automobili. Giriamo a destra e dopo il secondo isolato non capisco più dove siamo finiti. La strada con l’asfalto finisce improvvisamente. Siamo entrati in un cumulo di pietre, detriti, macerie, polvere bianca, finissima. Don Pier ci informa che lo spazio nel quale ci troviamo era la Piazza della Legna. Ora non c’è più nulla, nulla. Sembra di essere nella fossa di una discarica. Circondati tutt’intorno da un argine di pietre. Vedo un pezzo di legno conficcato nel terreno. Non si capisce se sia un palo del telefono o quel che resta del fusto di un albero. Non si capisce nemmeno se stiamo camminando sul suolo della piazza o al primo piano di quelle erano case, botteghe, chiese, moschee. Non riesco a dire una parola di commento. Mi allontano di qualche passo per lasciare che le lacrime corrano lungo il viso in libertà. Subito don Pier mi ricorda di non lasciare lo stretto spazio spianato dalle ruspe e non calpestare le macerie. È pericoloso. Ci mostra, raccogliendole da terra, due bombe artigianali inesplose. Vediamo anche due bombe da mortaio, anch’esse non esplose.
Una animatrice dell’oratorio ci viene incontro e ci accompagna a vedere dove era la sua casa. Per arrivarci attraversiamo le case d’altri. Non serve chiedere permesso per entrare, si passa da un buco sul muro e si attraversano stanze vuote e distrutte. Arriviamo in un buco dove intravediamo una scala in pietra che scende e che ha resistito alla devastazione. Ci dice che siamo entrati dalla camera da letto al primo piano (stiamo camminando su cumuli di macerie e poche travi di legno). La scala era quella che portava al cortile interno al piano terra, dove si affacciava la cucina, il soggiorno, e altri locali di servizio. Era una tipica casa in stile arabo con il cortile interno attorno a cui si aprivano le stanze della casa. Al centro del cortiletto c’era anche una fontanella d’acqua fresca. Ai lati, abbarbicata ai muri, una pianta di gelsomino ed un melograno. Lo capiamo dalle foto di casa sua, che ci mostra sul suo telefonino. Nella camera a fianco troviamo un muro di sacchi di sabbia con le feritoie che i cecchini dei terroristi usavano per sparare sui militari. I ribelli avevano usato questa casa proprio come postazione da cui colpire, ed è per questo che per stanarli, l’esercito ha sganciato una bomba che della casa non ha lasciato praticamente più nulla.
9° giorno – Aleppo Est
Passiamo poi a vedere i quartieri a est di Aleppo, dove i ribelli avevano iniziato la loro offensiva e proseguito poi con la conquista del centro storico di Aleppo. Le case qui non hanno alcun valore storico-architettonico. Sono palazzoni di periferia, uno accanto all’altro. Qui il cemento armato ha tentato una resistenza ben maggiore delle vecchie pietre e i muri di argilla della parte storica, ma non c’è stato nulla da fare di fronte alla forza d’urto delle armi moderne. Un palazzo in particolare ci colpisce. Sembra uno di quei castelli deformi e sghembi che si fanno con la sabbia bagnata in riva al mare. Assomiglia ad una torta al gelato mezzo sciolta, ad un abete carico di neve i cui rami si sono piegati sotto il carico della coltre bianca. È cemento armato piegato su stesso, arreso pure lui alla brutalità della guerra.
Le strade impolverate e grigie sono solcate continuamente da gente che cammina frettolosa e da numerosi bambini. Anche in questo inferno torna la vita. Vediamo uno spazio che doveva essere un negozio, adattato a stalla per le capre. Le capre in città! Ma con loro ci sono anche delle galline ed un cavallo. La povera gente sopravvive come può e, ora che le bombe e i cecchini tacciono, torna a casa e ricomincia la vita di ogni giorno, adattandosi.
Camminando da una parte all’altra della città siamo spettatori di un triduo Pasquale di passione e morte. Sofferenza e tradimento, dolore e ingiustizia. Ma anche qui scorgiamo i segni della Resurrezione. Il male non ha l’ultima parola su questa terra e sulla vita dell’uomo. Gli aleppini sono gente straordinaria. Stanno reagendo con una forza ed una tenacia uniche al mondo. Abbiamo visto un negozietto di gomitoli di cotone colorati da poco riaperto in una via del centro storico, che è tutto un cimitero di edifici. Eppure quel commerciante ha ripulito il suo locale, danneggiato ma non distrutto, l’ha ritinteggiato ed ha riaperto la serranda. Bravo.
Ad Aleppo est, camminando fra le macerie abbiamo trovato un tratto di strada ripulito dalla polvere e dai detriti. Vi stavano seduti in cerchio un gruppo di uomini che sorseggiavano il caffè arabo e del té. Li abbiamo salutati e abbiamo chiesto loro se potevamo fare delle foto e delle riprese video. Non solo ce l’hanno concesso, come finora avevano fatto tutti in questa terra così gentile e accogliente. Ci hanno invitato a prendere il the e il caffè con loro. Non hanno parlato della loro situazione di miseria, non hanno accusato nessuno dei loro mali, non ci hanno chiesto nulla. Sono stati loro a offrire quello che avevano e a farlo con garbo e gioia di stare insieme. Erano musulmani, lo si capiva dal vestito e da molto altro. Don Pier si era presentato come “Abuna”, prete cattolico ed al petto portava ben visibile la croce dei salesiani. Il più anziano fra gli uomini seduti, il patriarca del gruppo, salutando don Pier gli ha detto: “Abuna, quello che tu porti sul petto, anch’io lo porto sul petto”. “E quello che tu porti nel cuore, anch’io lo porto nel cuore” è stata la risposta di don Pier. Questi sono i siriani. Questi sono gli uomini di fedi diverse abituati a convivere, a rispettarsi nelle diversità e a riconoscersi uguali nella dignità di figli dell’unico Dio/Allah.
10° giorno – Testimonianza di Aleppo
Cari amici,
L’oratorio salesiano ad Aleppo è in un bell’edificio solido e funzionale, di proprietà di una fondazione costituita nella prima metà del secolo scorso da una nobildonna siriana senza figli – Mathilde Salem, che con il marito aveva deciso di devolvere tutto il suo patrimonio a favore dei ragazzi e giovani poveri della città di Aleppo, in particolare i cristiani.
L’attività dell’oratorio si svolge in condominio con altre attività educative (la scuola statale e quella greco cattolica), pastorali (la parrocchia greco cattolica) e produttive (la tipografia privata). Risulta un po’ strano il fatto che nel medesimo corridoio alcune sale siano dei salesiani e altre della scuola statale o di altre attività, ma abbiamo visto che loro ormai ci si sono abituati e la cosa non costituisce un gran problema, una volta conosciute le regole del vivere in comune.
I ragazzi che frequentano l’oratorio sono circa un migliaio, tutti cristiani, seppur di diverse confessioni religiose e riti. Ci sono i greco-cattolici e i greco-ortodossi, i siro-cattolici e i siro-ortodossi, gli armeni-cattolici e gli armeni-ortodossi, i maroniti, i caldei, i protestanti e i cattolici di rito romano (a cui apparteniamo anche noi).
I bambini, ragazzi e giovani che frequentano l’oratorio sono circa 900 a cui si aggiunge poi un bel gruppo di circa 60 giovani universitari. Si trovano insieme per il catechismo, lo sport (calcio e basket. Quest’ultimo è molto amato dai siriani e dal nostro oratorio di Aleppo sono usciti giovani che hanno giocato in serie A e anche nella nazionale), il doposcuola, l’Estate Ragazzi.
Il doposcuola è una attività aperta durante la guerra e risponde ad un bisogno molto serio dei ragazzi. Immaginate cosa possa significare abitare in un appartamento, dentro un palazzo senza luce o che funziona solo alcune ore al giorno, senza una regola fissa. Immaginate poi che in sottofondo si sentano scoppi di granate, bombe, spari a raffica. Riusciremmo a studiare in una situazione del genere? Come si può concentrarsi per fare i compiti per casa? Ecco allora che i salesiani ogni pomeriggio aprono le sale dell’oratorio e, aiutati da alcuni studenti universitari, creano le condizioni perché il ragazzino possa dedicare del tempo tranquillamente allo studio. Le sale dell’oratorio sono nel piano seminterrato. Potrebbe apparire una situazione poco confortevole, invece è proprio questo “effetto bunker” che da’ tranquillità. I muri spessi e la collocazione logistica non permetterebbero a nessun razzo di fare del male ad alcuno. Questa è la base per stare in serenità. Poi in oratorio c’è un buon generatore di corrente elettrica che garantisce la luce per studiare. Un adulto accanto infine, che è pronto a dare il sostengo quando serve, completa questa attività educativa fondamentale in un paese in guerra. Un giovane universitario ci ha detto che ci tiene molto a questo servizio verso i più piccoli perché uno dei frutti amari della guerra è la descolarizzazione. A causa delle numerose scuole chiuse perché bombardate, delle famiglie disgregate perché in parte emigrate all’estero, della tensione psicologica che giorno dopo giorno erode la volontà di impegnarsi, molti bambini e ragazzi non vanno più a scuola. Si rischia di avere una generazione di ignoranti, facilmente manipolabili in futuro dai potenti di turno.
11° giorno – Testimonianza di Aleppo
L’oratorio e i salesiani che lo animano sono un punto di riferimento anche per tante famiglie cristiane della zona. Papà e mamme che a causa della guerra hanno perso il lavoro, o sono state ferite da schegge di bomba, o hanno perso un figlio arruolato nell’esercito e morto negli scontri con i terroristi. Ne abbiamo sentito molti raccontare la loro storia di dolore, ma in nessuna testimonianza abbiamo colto la disperazione. Le lacrime che sgorgavano mentre rivivevano i momenti più drammatici non impedivano di continuare a raccontare e a testimoniare come la fede nel Signore li abbia sorretti. Sono cristiani adulti che parlano della loro fede con naturalezza, senza falsi pudori ne derive devozionalistiche.
Un papà ci dice che è stata dura vivere per anni in appartamento al quarto piano senza la corrente elettrica e senza acqua potabile. Portarsi su al piano le taniche d’acqua per tutto: per bere, cucinare e lavarsi. Usare la bombola del gas messa sul balcone per farsi da mangiare. “L’ho fatto per amore alla mia famiglia e perché non avevo alternative. Era la mia croce quotidiana assieme a quella di Gesù, e ho cercato di portarla senza nervosismo o lamentele”.
Una mamma ci ha confidato che insieme al marito hanno deciso di stare ad Aleppo allo scoppio della guerra e di non scappare all’estero. Ma la loro più grande preoccupazione era per i due figli maschi di 9 e 12 anni. Avevano il terrore che la guerra potesse farli morire e così la mamma pregava ogni mattina la Madonna quando uscivano di casa per andare a scuola: “Maria sii tu adesso la madre dei miei due figli, custodiscili, proteggili dai pericoli e restituiscimeli sani e salvi questa sera”.
I salesiani di questa opera sono stati per tutti gli anni dell’assedio ad Aleppo, e per tantissima gente, delle rocce sicure su cui mettere i piedi per continuare a camminare ogni giorno. Sono stati alberi forti che danno frescura e riposo nella fatica e riparo dai pericoli. Come le foglie verdi che assorbono anidride carbonica e la trasformano in ossigeno, questi uomini di Dio e figli di Don Bosco hanno saputo assorbire il dolore, la morte e la paura e trasformarli in speranza, amore, allegria e voglia di vivere.
Giampietro Pettenon