di don Enrico Lupano, SDB Valdocco.
Quante volte sono passato davanti all’altare di San Giuseppe, l’ho presentato a migliaia di pellegrini, qualche volta mi ci sono fermato di fronte per una preghiera. Se questo è l’unico altare che i Salesiani non hanno mai spostato, l’unico rimasto della Basilica di Don Bosco, potrebbe essere custode di qualche segreto speciale.
Sei anni dopo l’inaugurazione della Chiesa, il 26 aprile 1874, il pittore Lorenzoni colloca su questo altare il quadro con la Sacra Famiglia, tema molto caro a Don Bosco. È un po’ un ricordare la sua famiglia di origine. Un invito perché ogni opera salesiana sia una famiglia e lo stile educativo sia improntato sulle relazioni familiari. C’è un particolare però che non mi ero mai soffermato a guardare con attenzione. Sono le scritte che vi compaiono. In alto, un Angelo sorregge il giglio simbolo della castità; altri due l’invito “Ite ad Joseph”, cioè “Andate da Giuseppe” e poi, nella trabeazione del timpano, il versetto biblico: “constituit eum dominum domus suae” (Lo costituì signore della sua casa). Forse questo è uno dei segreti di Don Bosco. Per andare a Gesù, per fare nostre le scelte del Vangelo, oltre sicuramente a fare riferimento a Maria, Don Bosco ci ricorda la figura di San Giuseppe. Ecco perché, come dice la scritta, bisogna “andare da Giuseppe”. Non per fermarci a Lui, ma per essere accompagnati a Gesù. Del resto chi più di un padre può condurre al proprio figlio. Un padre che contemporaneamente è anche e soprattutto figlio e discepolo. Penso che forse proprio per questo motivo Don Bosco lo ha voluto “signore della sua casa”.
Mi piace allora pensare a Valdocco come alla scuola della paternità e della figliolanza. San Giuseppe è presentato come modello di paternità, “colui che si prende cura”, di Maria e di Gesù, ma anche della Chiesa, come ha sottolineato San Giovanni Paolo II: «San Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine Santa è figura e modello». Giuseppe esercita questa custodia con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e amore sua moglie. È accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; e poi nella quotidianità della casa di Nazareth, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù. Giuseppe vive perciò la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa, nella costante attenzione a Dio, aperto ai Suoi segni, disponibile al Suo progetto, non tanto al proprio. E Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla Sua volontà; in questo manifesta la sua figliolanza, nell’essere un “uomo giusto”. E proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge.
In lui vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri! È il custodire dell’intero creato. È il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, degli anziani, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene.
In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti, perché tutti siamo custodi dei doni di Dio! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi, vigilando sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono! Il prendersi cura, il custodire chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, San Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza! Se Gesù uomo ha imparato a dire “papà”, “padre”, a suo Padre che conosceva come Dio, lo ha imparato dalla vita, dalla testimonianza di Giuseppe. È facile allora immaginare San Giuseppe come modello dei genitori, degli educatori, di chiunque si prenda cura di qualcuno. Oltre a questo Giuseppe ci insegna a “custodire il mistero”.
Dobbiamo accettare di non capire tutto, soprattutto i voleri di Dio. Più ci si fida e ci si affida alla volontà di Dio e più si diventa figli. È questo un lungo apprendistato, una scuola molto complessa. Una scuola, ci ricorda Papa Francesco, che “ci scomoda”, che “ci fa andare tante volte su strade che noi non vogliamo”. Per San Giuseppe è stato così.
Anche Don Bosco ha dovuto poco alla volta imparare ad essere figlio accettando di fare la volontà di Dio. Che San Giuseppe ci aiuti allora ad essere padri e ad essere figli. Abituiamoci, come dice il nostro Papa, ad “andare da lui quando non capiamo tante cose, quando abbiamo tanti problemi, tante angosce, tante oscurità, e dirgli semplicemente: aiutaci, tu che conosci come camminare nel buio, tu che conosci come si ascolta la voce di Dio, tu che conosci come si va avanti in silenzio” (da “Uomo della paternità”, meditazione mattutina di papa Francesco nella cappella di Santa Marta, lunedì 18 dicembre 2017).