Ragazzi di strada nel cuore dell’Africa: i salesiani di Kigali, Rwanda

Sentir dire “ragazzo di strada” ci fa pensare ai membri di bande di minori che scorrazzano per le megalopoli di mezzo mondo, al confine fra ricchezza e povertà. Esclusi per cento ragioni dalla famiglia (essa stessa essendo molte volte marginalizzata), sono ragazzi – e ragazze, beninteso – che trovano la loro collocazione nelle periferie, pendolari verso il centro dove cercano modo di sopravvivere incappando nei “datori di lavoro” che li costringono all’accattonaggio, alla prostituzione o allo spaccio di stupefacenti.

Abbiamo in mente le città sudamericane dove il fenomeno dei “ragazzi di strada” ci è noto da più tempo; ma abbiamo anche appreso che il passaggio dal regime comunista a quello delle democrazie deboli nell’Est Europa ha fatto esplodere lo stesso fenomeno; così come abbiamo registrato che lo sviluppo a tassi esponenziali in Asia ha divaricato le differenze sociali spingendo nuove generazioni di poveri negli spazi della criminalità.

Siamo forse un po’ stupiti se pensiamo che i ragazzi e le ragazze di strada stiano assumendo anche in Africa le caratteristiche di un fenomeno sociale che si distingue sempre più nettamente da quello più generale della povertà del continente. Forse pecchiamo – tanto per cambiare – di pregiudizi nei confronti di un mondo che si sta trasformando e del quale avvertiamo le ricadute soprattutto nei termini della fuga verso i Paesi ricchi di migliaia di giovani. Nella situazione di uno sviluppo promesso, mancato o raramente realizzato, il nostro sguardo non riesce a distinguere la peculiare condizione dei ragazzi e delle ragazze che per motivi diversi si allontanano dalle famiglie ed entrano nel circuito della “strada”. Né la tenuta delle madri coraggiose che allevano i figli anche quando i compagni abbandonano il tetto, né la solidarietà del villaggio o le reti istituzionali riescono a far fronte al crescere dei ragazzi “senza speranza”.

Bambini senza famiglie

È così che nel cuore dell’Africa, in Rwanda, i salesiani stanno muovendo i primi passi per affrontare in maniera strutturata il fenomeno che, secondo i dati dell’Unicef, interessa 7mila bambini. I quali sono meno fortunati (se in questi casi si può stabilire una graduatoria) dei 300mila che vivono in strutture autogestite da loro stessi, le child-headed households: nuclei familiari in cui non ci sono adulti che se ne facciano carico, ma dove i più grandicelli assumo il compito di capi-famiglia. Ci sono 65mila famiglie registrate in questa forma.

“È un peccato vedere un bambino vivere in una vita di strada dipendente dall’accattonaggio e dall’abuso di droghe, nonché dalla mancanza di accesso a un’istruzione adeguata”: è questo il moto d’animo dal quale padre Rémy Nsengiyumva e i suoi confratelli di Kigali (la capitale del Rwanda) sono partiti per delineare il loro progetto di accoglienza. Stanno cercando di prendersi cura di questi bambini per allontanarli dalla vita di strada. “Sono bambini che sono stati esposti a una serie di problemi, alcuni sono stati incarcerati più volte, altri hanno lasciato la casa a causa di controversie familiari e della povertà, altri hanno perso entrambi i genitori a causa di varie circostanze” spiega il salesiano.

Il Rwanda è purtroppo “allenato” a questa emergenza: la guerra etnica che dal 1994 per 20 anni insanguinò i rapporti fra Tutsi e Hutu causò un numero di vittime che non fu mai possibile calcolare con precisione, ma che nei primi cento giorni raggiunse certamente la cifra di 500mila e alla fine verosimilmente arrivò a 1 milione. Un conflitto del quale il colonialismo belga era stato non solo l’innesco ma causa e complice. Se la violenza colpì prevalentemente gli adulti, i bambini ne furono ulteriori vittime sia perché assistettero spesso all’omicidio dei loro parenti sia perché rimasero orfani. Fu per questo che i meno piccoli dovettero crescere in fretta e farsi carico degli altri.

Anteprima di un “progetto”

Alla pesante eredità della guerra si è aggiunta nell’ultimo anno quella del Covid-19: “Il fatto che le famiglie siano state colpite economicamente dalla pandemia, con la chiusura delle scuole e l’aumento della violenza domestica” spiega il salesiano “ha contribuito all’aumento del numero di bambini di strada”. Anche quelli che cercano di tornare dalla di strada in famiglia non ricevono cure sufficienti.

La sua parrocchia a Rango, intitolata a San Giovanni Bosco, si è attivata con l’annesso centro di formazione professionale, attivo dal 1992, per dare loro materiale di cancelleria e abiti per accedere alle scuole. A chi ha fatto anche solo occasionalmente un mestiere, fornisce addestramento e l’attrezzatura necessaria per offrirsi come meccanico, calzolaio, motorista. “Ma quello del cibo è un problema serio perché appunto non hanno casa. Qualcuno ha una famiglia di appoggio ma gli altri sono ancora in attesa di destinazione” aggiunge il parroco. “A mezzogiorno, quando escono dalle scuole, riusciamo a dar loro da mangiare, ma non sappiamo ancora come affrontare questa necessità alla sera”.

Non ci sono al momento le condizioni per delineare un piano di intervento, e per questo l’azione dei salesiani è costituita dal gesto spontaneo di carità; ma questo è già sufficiente a “sognare” come Don Bosco una risposta organizzata. Il nome è nato da sé: ejo heza, in lingua locale, che significa domani andrà meglio. Già la voce si è sparsa: ci sono molti che vengono quando vedono i loro compagni trattati bene. Il prossimo anno scolastico entreranno in un programma di sostengo, per adesso approfittano del pasto quotidiano.

“Non abbiamo un progetto preciso, ci stiamo rivolgendo a tutti quelli che possono aiutarci e che lavoreranno con noi per prenderci cura di questi giovani” conclude p. Rémy.

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