“Per strada prega. Quando il tempo lo permette, recita il Breviario o legge la Bibbia. Fedelissimo all’Ufficio completo. Alla preghiera unisce il digiuno severo, al punto che l’amico Favre e il Vescovo devono invitarlo alla moderazione. È spossato, dorme poco, spesso per terra. […] Povero, senza risorse, vive di prestiti. Non dimentica la carità verso i poveri, i prigionieri di Thonon, i malati, i miserabili e anche i nobili decaduti. Quando la borsa è vuota, ricorre a sua madre. Intensifica il suo fervore interiore e cresce anche il suo irraggiamento esteriore” (Lajeunie I, 245).
E questo zelo pastorale risalta nelle lettere di questo periodo: ve ne troviamo anche alcune (poche) che potremmo chiamare lettere di affari, ma di affari che, se risolti, possono provocare tanto bene. Francesco è instancabile e le tenta tutte pur di riuscire nel suo intento: non esita a contattare il Papa, il Nunzio, il Duca… sempre con il garbo che gli è congeniale, ma anche con la lucidità e la fermezza che i problemi esigono. Lotta come un titano contro la prepotenza dei Cavalieri di san Lazaro e di san Maurizio, per la salvezza delle anime e per il bene della Chiesa e sa che questi due obiettivi li potrà raggiungere anche attraverso la difesa dei beni materiali. “Sono stanco morto”, ma non si arrende, anzi molte sue lettere si concludono con un colpo d’ala, cioè con una rinnovata fiducia in Dio e con una rinnovata attestazione di buona volontà.
Le prime spighe che finalmente cominciano a biondeggiare sono il frutto di tante fatiche e di tanta preghiera, alla quale è fedelissimo. Quando prevede che gli impegni della giornata non gli daranno spazio, si alza prestissimo e prega. Un posto particolare occupa la devozione alla Vergine Maria: ritiene che occorre stare con Maria per ricevere lo Spirito Santo. Ama recitare il Rosario ogni giorno, anche la sera tardi e quando teme di addormentarsi per la stanchezza lo recita in piedi o passeggiando. “Il tutto può durare anche un’ora” testimonia G. Rolland.
Francesco missionario nel Chiablese ha un’idea fissa: il prete, proprio perché celebra l’Eucaristia, deve essere, in forma visibile, un altro Cristo.
“La santità deve risplendere non dall’uomo, ma dal Signore attraverso l’uomo. Far comunione con il Cristo è il primo compito del prete. Prima di essere e per meglio essere per tutti, Francesco è anzitutto di Dio…. Fin dall’inizio della sua vita sacerdotale egli ricerca e tende con tutte le sue forze ad una obbedienza totale au bon plaisir de Dieu. Ecco il santo e l’apostolo che vuole essere unicamente dell’unico Maestro, totalmente al servizio della sua causa” (cfr. Lajeunie I, 203-204).
Dopo due anni di attività missionaria a Thonon Francesco chiede e ottiene di poter celebrare le tre messe di Natale del 1596, nella chiesa in cui abitualmente predica. Un permesso sudato, cui non sono mancate critiche e opposizioni da parte dei calvinisti. Un altro passo importante è compiuto perché senza Eucaristia non ci può essere Chiesa. Così la pensa Francesco.
Il papa Gregorio VIII, che conosce lo zelo apostolico e l’intelligenza di Francesco, gli affida l’incarico di contattare il successore di Calvino, Teodoro Beza. Il numero uno del calvinismo è ottantenne e troppo legato al suo ruolo per convertirsi. Francesco comunica al Papa l’esito dei suoi tentativi, risultati vani. “Mi recai più volte a Ginevra col pretesto di vari affari, ma non mi fu mai possibile arrivare ad un colloquio privato […]; quando lo trovai finalmente solo e, sulle prime, abbastanza disposto a lasciarsi avvicinare […], dovetti convincermi che il suo cuore era di pietra, sempre irremovibile […] essendo inveterato nel male” (L 95, 199).
Don Gianni Ghiglione, SDB
Fine seconda parte
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