Ci sono aree del mondo che sono oggettivamente marginali rispetto ai grandi flussi economici e demoscopici, ma che entrano ugualmente nel turbine di avvenimenti globali. È avvenuto per l’Amazzonia nel tempo della pandemia per Covid-19, ed emergono così i sottili, ma determinanti canali di interconnessione, quelli evidenziati nell’enciclica “Laudato Si’” del 2015 e nel Sinodo Panamazzonico del 2019.
Il contagio fra i più poveri del mondo
Nella regione di Manaus, la capitale dello Stato brasiliano di Amazonas, ci sono stati i primi funerali di massa delle vittime, gettate nelle tombe comuni, che le immagini televisive hanno fatto vedere anche a noi.
Se c’era un terrore che accomunava gli osservatori fin dall’inizio del contagio è quello dell’arrivo del virus nelle aree del pianeta meno protette dal punto di vista sanitario. Mentre nei Paesi più ricchi il collasso dei sistemi è stato un rischio verificatosi solo parzialmente, in Africa, in Asia e in America (e non solo quella centromeridionale) la diffusione del contagio ha messo in ginocchio vaste aree e la parte di popolazione più debole.
Uno sguardo particolarmente preoccupato è quello rivolto alle minoranze etniche, già soggette alle pressioni derivanti degli interessi per lo sfruttamento delle risorse naturali dei loro territori. A pochi mesi dalla celebrazione del Sinodo panamazzonico in Vaticano 2019, la situazione per i popoli nativi della foresta si è presentata più drammatica per la diffusione del Covid-19 in contesti privi di luoghi di cura, di disponibilità di terapie (che abbiamo visto da noi quanto siano complesse), di sufficiente capacità di resistenza alla mancanza di produzione e di trasporto dei beni alimentari, di perdita secca delle opportunità quotidiane di lavoro. Ne sono testimoni i missionari, ultima garanzia di rispetto dell’identità di quei popoli e voce che può arrivare oltre frontiera.
Si è pure temuto che le forze finanziarie e politiche dominanti in Brasile assumessero la pandemia come occasione per una “soluzione finale” della questione degli Indios: uno sterminio senza uso di armi, costringendo le diverse etnie a lasciare i loro villaggi per sfuggire al contagio, indebolite dalla malattia, ridotte allo stremo, assoggettate all’isolamento fisico che avrebbe impedito il soccorso.
Mentre il Covid-19 e il modo errato di contrastarlo hanno realmente trasformato in ecatombe la pandemia nelle megalopoli come San Paolo e Rio de Janeiro o nei luoghi ad altissimo scambio industriale con l’estero come Manaus, le città e i villaggi che affacciano sulla foresta stanno riuscendo a contenere il fenomeno entro limiti sostenibili. Ne è testimone don Roberto Cappelletti, missionario salesiano in procinto di ritornare a Iauareté dopo una lunga attesa in Italia (dove era stato chiamato a partecipare al Capitolo della Congregazione) determinata dal blocco dei voli intercontinentali. Nei lunghi mesi fra febbraio e maggio ha tenuto con i confratelli nella missione contatti stretti via Internet, facendosi eco nel nostro Paese delle notizie sull’evolversi della situazione e sugli interventi effettuati sul posto.
La medicina tradizionale della foresta
Il primo dato, confortante, è che gli indios sono riusciti a rallentare la diffusione del virus mediante due misure: il distanziamento dai focolai presenti nelle città e il ricorso a cure della loro tradizione medica. Dunque non sono fuggiti dalla foresta ma anzi sono rientrati nelle loro località, dove hanno trovato l’isolamento necessario e hanno fatto anche uso delle erbe e piante medicinali a cui ricorrono abitualmente per rinforzare l’organismo. Le stesse cure sono state inoltre adottate dai missionari e dalle missionarie colpiti dal virus. Tutti ne sono usciti risanati per tornare a servizio della gente, insieme al vescovo di São Gabriel da Cachoeira, mons. Edson Taschetto Damian, anch’egli vittima del contagio.
Ma è necessario capire come il virus sia arrivato fino a quel pezzo di mondo, per raggiungere il quale occorrono giornate di navigazione lungo i fiumi. Un primo veicolo sono stati i trafficanti e gli avventurieri che si sono spinti fino ai villaggi più lontani per scambiare merce e tastare il terreno – in un momento di smarrimento anche delle forse di controllo – sulle possibilità di esplorazione delle ricchezze del sottosuolo. L’altro veicolo sono state le squadre di soccorso inviate dal governo centrale, costituito da personale che non era stato sottoposto ai controlli sanitari che escludessero la contaminazione dal virus. Qualcuno pensa che questa “leggerezza” fosse in qualche modo favorita dall’atteggiamento politico verso quelle popolazioni resistenti alla colonizzazione.
Sinodo panamazzonico e “Laudato Si’”
Se a una lettura superficiale il Sinodo panamazzonico di ottobre 2019 in Vaticano, voluto fortemente da Papa Francesco, non ha innescato dei meccanismi forti di difesa delle popolazioni e del patrimonio di biodiversità contenuto nella foresta, un effetto però lo sta avendo. Lo evidenzia lo stesso don Roberto Cappelletti che ha percepito che la volontà di resistere alla pandemia sia stata opportunamente coltivata dalla grande celebrazione in Vaticano, e prima e più ancora dal grande lavoro di preparazione a quell’evento che ha coinvolto le comunità e i loro rappresentanti. Senza Sinodo, questo è il giudizio, la capacità di reazione degli Indio sarebbe stata oggi meno forte e determinata. Anche l’enciclica “Laudato Si’” ha fatto la sua parte: al di là del suffragare con una visione globale la questione amazzonica per le sue valenze nell’economia del pianeta, ha indicato la strada della valorizzazione delle diversità culturali e la preziosità dei popoli che costituiscono parte imprescindibile di una sola umanità.
La “lezione” annunciata del Covid-19, frutto della profanazione di mondi selvaggi compiuto dall’uomo e della corruzione del proprio habitat per abuso delle risorse dovrà presto essere messa in pratica per evitare nuove e più letali catastrofi. Quello che qualcuno cinque anni fa ha voluto leggere come un ennesimo appello romantico per la difesa dell’ambiente si sta rivelando come l’autorevole invito a riconsiderare le ragioni di scambio fra gli uomini e fra i popoli per garantire che ci sia ancora un domani per questi stessi protagonisti del Creato.
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