Di “miracoli” un missionario ne incontra più d’uno lungo la sua esperienza. A volte è la soluzione che giunge in extremis a un problema di sopravvivenza, a volte è il realizzarsi di quello che all’inizio appariva solamente un “sogno”.
Per un uomo che ha 80 anni di vita, 60 da salesiano coadiutore, 46 da missionario fra Asia e Africa,
c’è stato certamente più di un momento in cui ciò che accadeva aveva il sapore
dell’intervento provvidenziale di Dio Padre. È l’esperienza di Andrea Comino, originario del Monregalese, perito elettronico quando l’elettronica era ancora un mistero per i più, insegnante ma anche coordinatore di progetti che hanno avuto al centro la costruzione di scuole professionali in vari Paesi. Con in più la variante del contesto culturale e religioso che richiedeva un modo sempre diverso di “essere missionari”.
Riuscire a parlare la lingua di chi incontri
La sua prima destinazione fuori dall’Italia (dalla Torino dell’Istituto Agnelli dove era entrato come docente nel 1961)
furono nel 1975 le Filippine, con la popolazione che, in barba alle occupazioni prima spagnola e poi statunitense, preferiva usare nei dialoghi correnti l’antico idioma locale, il tagalog invece dello spagnolo o dell’inglese. Un idioma che ha struttura lontana dalla nostra, essendo di ceppo austronesiano (Oceano Pacifico), diventato la base della lingua ufficiale del Paese con la Costituzione approvata nel 1973. Uno sforzo di conoscenza – quello della lingua – che tuti i missionari devono compiere se vogliono entrare in relazione paritaria con le genti che incontrano. Un miracolo che richiama la polilalia di Pentecoste, la capacità di parlare a ciascuno nella propria lingua dopo l’effusione dello Spirito Santo.
Poi la Cambogia nel 1992, quando il Paese stava faticosamente cercando un suo equilibrio dopo la sanguinosa guerra con il Vietnam e la follia dei Khmer Rossi capitanati dal folle Pol Pot. Anche in quella sede il segno del passaggio di Andrea Comino è
la fondazione di scuole professionali, poi cresciute fino a guadagnare un prestigio di rilievo nazionale come quella di Sihanoukville per i servizi turistici.
Un ritorno nelle Filippine fra il 1994 e il 1997 per dare vita alla nuova scuola di San Jose, città frastagliata in 38 quartieri nell’isola di Mindoro. Ma quando una persona ha la dote del pioniere, è difficile che resti a lungo a godere lo sviluppo di quanto ha impiantato. Il balzo successivo di Andrea
nel 1997 lo fece arrivare
in Nigeria, dove in dieci anni si era costituita una feconda ramificazione della presenza salesiana negli Stati di Anambra e di Ondo, affidata alle ispettorie Adriatica,
Novarese e
Subalpina. Anche in questo caso la necessità di entrare nello specifico di una cultura e dei difficili rapporti tra diverse etnie.
Destinazione “Africa”: Nigeria e Sudan
Doveva sostituire un confratello che si era ammalato. Terminata questa supplenza, l’Africa tuttavia non lo lasciò tornare alla base di Manila. Anzi, molte energie dall’Asia sembravano in quel momento convergere verso l’altro continente: il salesiano don Luc Van Looy (poi vescovo di Gand, In Belgio) dalla Korea del Sud fu chiamato a guidare il subentro della congregazione nella scuola tecnica fondata dai Comboniani a Khartum, la capitale. Il braccio operativo era il docente di meccanica Maurizio Bois, proveniente dalla Val d’Aosta.
È in quella decisione che si innesta
la seconda grande vocazione missionaria di Andrea. Questa volta congiunta con quella del fratello Giacomo coinvolto nella richiesta di “qualcuno” disposto ad andare in un Paese a dominante maggioranza islamica,
il Sudan.
L’esperienza scolastica si intrecciò presto con le vicende belliche che interessavano il sud del Paese. Moltissimi giovani profughi raggiungevano Khartum per cercare sopravvivenza, mentre la scuola poteva accogliere solo il 10% delle domande di iscrizione. Con il coraggioso pro-nunzio apostolico Erwin Josef Ender i salesiani affrontarono la sfida di dare luogo a una succursale. I primi passi furono in discesa: il presidente ʿOmar Hasan Ahmad al-Bashīr consentì all’individuazione di un terreno nei pressi dell’aeroporto. Trovata l’acqua di un pozzo, si poteva dare corso alla costruzione dell’opera, per la quale si raccolse la prima contribuzione finanziaria. Il governatore locale però incominciò a porre in atto una serie di ostacoli che portarono in ultimo all’abbandono del progetto: i salesiani recuperarono grazie a un’azione giudiziaria più del 60% delle spese sostenute, e con quella somma diedero il via alla costruzione di una scuola a al-Ubayyiḍ (El Obeid), suggerita dall’ amministratore apostolico Antonio Menegazzo, comboniano, convinto dalle capacità salesiane espresse nella capitale.
El Obeid, terra di missione inaspettata
Forse è troppo parlare di miracolo, ma sta di fatto che in sei mesi l’opera fu progettata e in un anno realizzata da maestranze affiatate: i
4.000 metri quadri di costruzione furono realizzati con grande attenzione alle caratteristiche del luogo e con una combinazione delle varie competenze, dall’idraulica alla saldatura, dall’impiantistica elettrica alla falegnameria. “Ce l’hanno messa tutta” ricorda ancora con ammirazione Andrea Comino, che coinvolse gli istruttori della scuola di Khartum per avere la massima garanzia non solo di perizia ma anche di passione. Non lo dichiara, ma si capisce che quello è il suo fiore all’occhiello: sono state attrezzate aule e laboratori per insegnare meccanica generale, auto-meccanica, idraulica, taglio e saldatura dei metalli, falegnameria ed elettrotecnica: in quest’ultimo campo, e ce lo spiega da esperto, “la scuola di El Obeid non ha nulla da invidiare a quelle analoghe in Italia”.
La capacità è stata anche quella di trovare il finanziamento per un’opera che nasceva da zero: ma anche da questo punto di vista si direbbe che l’impegno è stato accompagnato sempre da un vento a favore grazie a donazioni provenienti da mezza Europa.
L’esperienza fu utile ad Andrea Comino per affrontare insieme con suo fratello Giacomo due altre sfide estreme:
il territorio del Darfur, devastato dalla guerra, doveva rinascere per dare un futuro ai più giovani; il Sud Sudan, resosi indipendente al nord, doveva ricostruirsi a partire dall’istruzione di base. In entrambi i casi la “formula” era la costruzione di scuole accoglienti per ragazzi e insegnanti.
Anche in quel caso il “miracolo” poté compiersi grazie alla fiducia ormai conquistata fra i benefattori, che destinarono a progetti certo ambiziosi le loro offerte e il 5×1000.