A dirla tutta, il primo miracolo a Kami è quello di riuscire a sopravvivere. Questo territorio del Dipartimento di Cochabamba sulle Ande arriva a un’altitudine di 4.000 metri. È da definire anzitutto come un ambiente ipossico, ossia povero di ossigeno: il 60% circa di quanto se ne respira a livello del mare. La gente che vi abita – poco più di 20.000 persone, nella quasi totalità appartenenti alle etnie Quechua (gli antichi Incas) e Aymarà (pre-incaici) – per generazioni ha adattato l’organismo a queste condizioni. Il meccanismo di sopravvivenza è quello dell’aumento dei globuli rossi, i trasportatori del gas vitale. Ma questo provoca anche una minore fluidità del sangue: gli effetti si osservano ad esempio sulla tenuta dei microvasi che si trovano negli occhi.
Vi è comunque il 15% di persone che patisce il mal di montagna, una cronicità che si sta affrontando per la prima volta in modo sistematico per le patologie che ne conseguono. Ma se alle condizioni climatiche ci si può adattare (non si trascurino freddo e neve), in quella periferia è ancora più difficile stare al passo del resto del mondo che corre. E questo vale per l’intera Bolivia. Quando don Serafino Chiesa arrivò a Kami nel 1977 portò l’entusiasmo del giovane missionario e lo spirito contadino delle sue origini (il Roero) e quello industriale della città in cui si trovò a vivere (Torino) nel quartiere a ridosso delle grandi fabbriche dell’auto. A queste doti si aggiungeva l’attitudine tipica salesiana di affrontare ogni sfida con la convinzione che, in un modo o nell’altro, la soluzione si trova.
Don Chiesa ha dato corso così alle consuete iniziative di accoglienza e di formazione di ragazzi e giovani nello spirito di Don Bosco, ossia creando scuole e convitti. E poi, a quelle altitudini (pensiamo alle difficoltà di portare materiali e competenze) ha dato vita a una catena di progetti: minerario, assistenza sanitaria, acquedotto, strade, maglieria, rimboschimento, falegnameria, panificio, allevamento ittico. Possiamo scommettere: ognuno di questi interventi ha il sapore del miracolo: agli occhi degli abitanti di Kami, anzitutto, che non si aspettavano che quell’uomo avesse relazioni così preziose da poter “inventare” ciò che non osavano sperare, per la salute di ciascuno e per la vita comunitaria. Ma sono miracoli anche agli occhi nostri per il solo fatto di vedere assieme tutti questi interventi in capo a un solo cura, a un parroco venuto dall’altra parte del mondo. Al quale, evidentemente, non è venuto il mal di montagna.
Non sono mancati gli incidenti di percorso, letteralmente: per le strade di montagna, gli automezzi acciaccati della missione mostrano frequentemente i loro limiti: volanti che restano in mano durante una curva, “Tienimi sempre una mano sulla testa” è la preghiera che ogni volta don Serafino ripassa mentalmente, pe sé e per i suoi collaboratori. Forse questa protezione assieme alla speciale ossigenazione del cervello ad alta quota lo ha spinto a immaginare un’impresa davvero da far tremare le vene e i polsi: la riattivazione di un impianto idroelettrico abbandonato per dare energia al Kami! La “folgorazione” (è il caso di dirlo) è partita una ventina di anni fa, e si è realizzata nel 2007. È vero che un missionario non è tenuto a creare un’impresa economica di quella portata, ma don Serafino ha ascoltato la gente. Ha compreso che l’elettricità lo Stato non sarebbe riuscito a portarla fino a quelle quote, mentre l’energia serve a illuminare, a riscaldare, ma anche a far girare le macchine. Ma la produzione consente anche di venderne una quota importante e da lì ricavare un introito per la comunità di Kami, che serve a garantire i servizi sociali e a valorizzare le capacità di lavoro.
Missioni Don Bosco, per don Serafino, è stato un finanziatore importante. Data l’ampiezza dell’investimento richiesto dall’impianto idroelettrico, ha giocato un ruolo chiave la destinazione de 5×1000 da parte di un numero di contribuenti per fortuna molto alto. Le risorse sono servite, come ricorda il missionario, “a camminare sulle ali di un sogno per una popolazione che un giorno potrà camminare con i propri piedi”. L’obiettivo è di rendere autosufficienti le famiglie e le comunità, di non dipendere più da aiuti esterni, compresa la generosità dei benefattori.
Insomma, il miracolo è stato quello di far fare davvero un salto di qualità, all’acqua nelle turbine e alla gente nelle case e negli opifici. L’energia è il motore dello sviluppo. E poi c’è stato il miracolo vero, come racconta don Serafino: quello che fa pensare che la sfida umana alle condizioni ambientali sia sì un atto di tenacia ma anche una benedizione dall’Alto.