“A te e a tutti i tuoi collaboratori e collaboratrici, benefattori e amici, nel giorno anniversario della prima spedizione missionaria di Don Bosco, giunga rinnovato e sentitissimo il GRAZIE per il vostro generosissimo supporto della nostra missione di Ijebu-Ode. Il Signore vi benedica e ricompensi tutti e tutte”. Sono fra le ultime parole scritte da don Italo Spagnolo, missionario in Nigeria, l’11 novembre scorso: sono indirizzate a Giampietro Pettenon, presidente di Missioni Don Bosco. Le riportiamo perché portano il saluto anche ai nostri lettori.
Parole semplici, eppure così dense, che testimoniano come don Italo Spagnolo ha vissuto il suo servizio: senza risparmio e in spirito di gratitudine per gli aiuti che sostenevano la missione, e per la grazia di trovarsi coinvolto in questo dinamismo della Carità. Poi il silenzio determinato dal peggioramento delle condizioni fisiche, fino a che il virus di questo anno gli ha tolto tutte le energie e, alla fine, il respiro.
La vocazione di un uomo sereno e attivissimo sorta fra le montagne
È venuto a trovare Missioni Don Bosco tutte le volte che ha fatto ritorno in Piemonte per sostenere la sensibilizzazione ai problemi dell’Africa, per informare sui progetti per la gioventù del continente, per rendere partecipe la comunità che l’aveva inviato così lontano. Negli ultimi tempi, a causa di problemi di salute, ritornava più spesso per curarsi fra Vigliano Biellese, dove ha sede la Casa salesiana da cui era partito 35 anni fa, e Torino fra Valdocco e il San Giovannino.
È stato in più occasioni per noi “testimonial” del mondo missionario: la sua immagine con il sorriso aperto e accogliente è apparsa nelle nostre comunicazioni diffuse in tutta Italia, si è prestato ai nostri incontri con i benefattori oltre che nella condivisione delle gioie e dei problemi per le opere a lui affidate. Dal cuore di chi l’ha conosciuto da vicino sono scaturiti ogni volta pensieri di affetto e di stima: “per te hanno sempre parlato i fatti e le tante cose belle che hai costruito nella tua vita”, scrive Ester Negro traducendo il pensiero di tutti a Missioni Don Bosco.
Abbiamo approfittato di una pausa fra una terapia e l’altra a fine ottobre per andare con lui nelle sue terre di origine a farci raccontare origine e sostentamento della sua missione: un ricordo che – come è avvenuto – sarebbe stato più forte respirando l’aria di Premarcia, la frazione di Vallelana nel Biellese, 552 metri d’altitudine, dove la casa di famiglia appartiene oggi a chi viene qui dalla città per le vacanze.
Negli anni di don Italo, da quella frazione partiva la gioventù per recarsi a piedi, in qualunque stagione, a lavorare nell’industria tessile, la ricchezza di quel territorio fino a che la globalizzazione ha reso non più economico lavorare la lana e produrre tessuti fra quelle montagne. Oggi 25 uomini e 26 donne compongono la popolazione di Premarcia, testimoni della tradizione paesana e resistenti allo spopolamento. Fra loro abbiamo incontrato Michelangelo, un vecchio amico, con il quale lo scambio commosso ha ripercorso gli anni di freddo intenso e di povertà di mezzi, ma anche di unione fra le famiglie e di speranza del dopoguerra.
Don Italo ci ha fatto vedere, usando pochissime parole, l’umiltà delle sue origini e il tesoro che se ne è portato appresso quando andò a studiare dai salesiani e poi entrò convintamente nella loro congregazione. «Se il Signore ti vuole prete e Salesiano, io non farò altro che ringraziarlo per la tua vocazione» così la mamma, «Per adesso pensa a studiare seriamente e a comportarti bene. Poi si vedrà» così il papà risposero al piccolo Italo quando confidò la sua vocazione. Come questa si sia poi sviluppata è stato raccontato anche in tante pagine, comprese quelle di questo sito.
Nell’Ispettoria un tempo “novarese” e attualmente parte nella Circoscrizione speciale Piemonte-Valle d’Aosta, gli incarichi impegnativi non sono mai mancati: scuola, parrocchia, oratorio; ma l’appello del 1980 a “partire per l’Africa” era risuonato nel cuore di don Italo come un sereno invito a donarsi, in quanto Figlio di Don Bosco, ad altri giovani dalla vita stentata come per le famiglie che avevano circondato la sua infanzia, giovani distanti 6.000 chilometri dalla ormai facoltosa provincia in cui si trovava.
Mostrare il protagonismo della comunità da cui era partito: questo il suo scopo
L’affetto per don Italo da parte della comunità di Vigliano Biellese, da cui era partito e a cui ritornava per i rifornimenti per la missione, è emerso in ogni incontro del nostro giro di riprese video a fine ottobre: con i confratelli tutti, a cominciare dal direttore delle Casa don Genesio Tarasco, il quale non ha nascosto la sincera ammirazione per don Italo così come per l’altro grande missionario che faceva il “pendolare” fra Italia e Nigeria, don Albino Sossa. Anche di questi si è dovuta piangere la scomparsa per via del Covid-19 pochi mesi fa.
A riguardare le immagini di quella lunga giornata – in cui ebbe modo di esprimere davanti al cimitero dove riposano i suoi genitori un pensiero e una preghiera alla vigilia della Commemorazione dei Defunti – troviamo pochi interventi di don Italo su una biografia pur ricca di episodi significativi e di realizzazioni considerevoli. Ha preferito che parlassero gli altri: i due fratelli Elio e Silvano, segno della vocazione condivisa da tutta la famiglia, i compagni di scuola, la prima coppia di sposi di cui ha benedetto il matrimonio, la presidente dell’associazione di Oropa per l’aiuto ai missionari, il parroco di Vigliano e il direttore della Casa salesiana, il vecchio amico, l’industriale che ha costantemente aiutato la realizzazione di laboratori di falegnameria in missione… sembrava che anche le pietre della chiesetta avessero qualcosa da dire in quell’incontro con don Italo. Aveva preparato la giornata di riprese video pigiando in poche ore quanti più interventi ha potuto per far vedere protagonisti i suoi confratelli, i collaboratori, il mondo da cui proveniva. Lui si era tenuto da parte.
“Ci ritroveremo a Valdocco per farti raccontare la tua vita”: questa l’intenzione espressa mentre tornavamo, osservando che la sua umiltà l’aveva lasciato fuori campo come un giocatore di riserva.
Sembrava appagato però per aver dato la parola a tanti, testimonianza preziosa per descrivere la coralità della missione. Ce l’ha anche spiegato: un tempo partiva il singolo missionario, era lui l’attore unico dell’evangelizzazione e della carità fraterna; dopo il Concilio, quindi anche il “Progetto Africa” dei salesiani promosso dal rettor maggiore don Egidio Viganò, fu configurato come gemellaggio fra comunità religiose, qui e là.
Era tornato in questo 2020 per mettere in quadro la sua condizione fisica compromessa: ma senza alcuna lamentazione, benché le cure fossero impegnative e indebolissero le probabilità di tornare presto nella sua Africa. Avrebbe dovuto presiedere la celebrazione eucaristica a Maria Ausiliatrice nel giorno anniversario della prima partenza missionaria, ma si sentiva troppo stanco e con costernazione ha dovuto dire di no.
Anche il telegrafico messaggio il giorno dell’ultimo ricovero, il 15 novembre, esprime speranza e gratitudine tipici di don Italo: “Ricoverato al Gradenigo. Tutto bene. Deo gratias. Ottima assistenza. Ciao”.