L’esperienza di un’estate in missione non nasce dal nulla, né sarà ininfluente sulla storia delle persone che la vivono. Ne sono ben consapevoli Silvia M., Michele D. e Simona R. che in queste settimane si trovano rispettivamente in Nigeria, in Romania e in Benin per immergersi nelle attività di animazione di ragazzi e giovani.
Il percorso di avvicinamento che hanno compiuto per un intero anno, da un lato ha avuto l’obiettivo di attrezzarli con la massima quantità possibile di informazioni sulle persone che incontreranno, sulle condizioni ambientali, sui progetti in corso nella missione. Dall’altro è sembrato mirare – dall’incontro che abbiamo avuto con loro prima della partenza – allo svuotamento da ogni velleità che possa generare frizioni con le attività che incontreranno o che possa far loro pensare di essere indispensabili per la riuscita dell’attività. Beninteso: non si tratta di vivere l’esperienza missionaria in una sorta di bipolarismo, fra l’utilità della partecipazione a un progetto e la marginalità del contributo che si può dare al suo funzionamento. Si tratta piuttosto della logica che gli stessi missionari interiorizzano dopo che hanno sperimentato essi stessi il sogno di un intervento di risposta alle tante esigenze delle comunità in cui vivono e toccato con mano le ragioni della sua limitatezza.
Entrare nella missione in punta di piedi
D’altronde lo scopo primo di un missionario è quello di portare dentro l’esperienza di villaggi sperduti o di periferie urbane il segno della vicinanza di Dio, la quale può certo riservare “sorprese” a breve, ma che ordinariamente misura il suo effetto solo dopo una semina generosa senza fretta.
Il buon risultato dell’esperienza dei 14 giovani che quest’estate sono partiti da Torino, così come di quella di numerosi altri volontari partiti dalle ispettorie Veneta (destinazione Nigeria), Italia Centrale (Egitto) e Sicula (Madagascar) sarà nella loro maturazione alla luce dell’incontro con culture e condizioni di vita radicalmente diverse, con i loro coetanei che si misurano con quelle potenzialità e quegli ostacoli.
Per questo il termine “esperienza” è azzeccato: la valenza delle settimane in corso si misurerà infatti nell’animo di ciascuno, nei riverberi psicologici di un incontro speciale, nella messa alla prova della propria adattabilità a situazioni talvolta estreme. Il tempo donato potrà risultare un servizio efficace nella misura in cui sarà decisamente gratuito, libero da aspettative illusorie, segnato da una alacre umiltà.
Torneranno cambiati, Silvia, Michele, Simona e i loro compagni. Pronti a iniziare da quel punto un’azione missionaria ovunque si trovino, con le loro professioni e con le loro famiglie. I primi a rendersi conto di questo cambiamento saranno proprio le persone loro prossime in casa, sul lavoro, negli ambienti che frequentano. Non sarà il racconto di un viaggio esotico, non sarà la curiosità fine a se stessa dell’aver conosciuto nuovi mondi, non sarà la predica di una giustizia da rivendicare ma la comunicazione appunto di una “esperienza”.
Preparati a viveRE un’esperienza straordinaria
Già ne hanno avuto sentore nei mesi di preparazione.
- Michele ha avvertito che l’Europa che normalmente ci viene descritta manca di tasselli importanti come quello dei luoghi lontani dalle grandi città che fanno muro a una invadente modernità, dove le tradizioni coesistono su terre di confine: “Vedrò chiese diverse, iconografie religiose diverse, vivrò a tu per tu con parrocchiani della Chiesa ortodossa rumena” quando a Torino la pur nutrita presenza di migranti dalla Romania non ha toccato la quotidianità delle nostre comunità cattoliche. La preparazione che hanno ricevuto i volontari permetterà di superare anche l’incertezza dell’incontro con certe “novità” che potrebbero generare chiusure in se stessi.
- Simona si troverà a faccia a faccia con le ragazze che hanno rischiato la tratta o quelle che sono state recuperate dalla strada sulla quale erano state avviate per prostituirsi. Nel Benin queste situazioni sono intersecate con una concezione pratica della famiglia che nelle situazioni di povertà arriva a considerare i figli come una merce di scambio. Difficile esimersi dal confronto di mentalità, dal giudizio sulle persone, dal disagio dell’incontro.
- Silvia, la più giovane del gruppo, si è fatta varie immagini ma non sa quel che vivrà in Nigeria. Ha creato come una sorta di sospensione dei sentimenti e delle emozioni per consentirsi di farli emergere quando sarà sul posto. Ma è sicura che avrà modo di riconsiderare il suo modo di vedere le cose, è pronta a cambiare mentalità, i modi di relazionarsi.
“Missionari” al ritorno
Da studentessa, Silvia, da educatore, Michele, da impiegata, Simona, avranno molto da fare in se stessi e con le persone con cui, al ritorno, si troveranno a raccontare l’esperienza missionaria. Già le perplessità di alcuni si è manifestata quando domandavano: “Ma che ci vai a fare?”, oppure “Ma consumi così le tue sospirate vacanze?”, o ancora “Ma sei matta pure a pagare per andare in un posto scomodo e forse pericoloso!”.
“Difficile spiegare il perché” confessa Silvia “dal momento che la motivazione tocca la parte più profonda di noi”. Anche fra i compagni di studio, che pure si preparano a diventare operatori della cooperazione internazionale, non è facile spiegare che c’è una differenza fra affrontare i problemi astrattamente e andare a incontrarli sul campo.
A tutti quei “personaggi” che incarnano perfettamente il modo di ragionare utilitaristico e l’indifferenza ai problemi degli altri è destinata una vena non secondaria di questa “animazione missionaria” che i volontari sosterranno al loro rientro. Con pazienza, questi dovranno dare ragione del desiderio “di tornare cambiati per essere più consapevoli di quello che è l’umanità” come spiega Simona, “di tornare più umani dopo aver visto da dentro la povertà del mondo”.