17 luglio 2019
Era il 1875 quando Don Bosco inviò i primi dieci missionari in Argentina, a Buenos Aires, la prima spedizione missionaria salesiana. In quel periodo l’emigrazione degli italiani, verso paesi che offrivano una speranza di uscita dalla miseria in cui si viveva in Italia, costituiva un fenomeno di massa. L’Argentina era una di queste “terre promesse” e i salesiani giunti a Buenos Aires si occuparono dell’assistenza spirituale degli immigrati italiani, gestendo la chiesa dedicata a Maria Mater Misericordiae, soprannominata la chiesa degli italiani.
La presenza dei salesiani in questa terra è quindi coeva con quella italiana, e poi europea. Potremmo rappresentare la congregazione fondata da Don Bosco come un albero il cui tronco quasi subito si divide in due grandi rami, di cui quello dell’America Latina si innesta proprio nella storia dell’Argentina.
Ci sono collegi con migliaia di studenti dalla scuola materna alla secondaria superiore, un tempo disseminati nella campagna che circondava la capitale argentina ed oggi al centro di enormi quartieri che costituiscono la metropoli moderna di Buenos Aires. E “opere di frontiera”, nate negli anni recenti fra case e baracche che accolgono centinaia di migliaia di poveri che dall’estero, e anche dalla campagna, continuano a spostarsi verso la grande città in cerca di fortuna.
Fra le tante case salesiane che abbiamo visitato in questa città, alcune delle quali gestite completamente da laici ben preparati ed innamorati del carisma salesiano, una attività in particolare mi ha colpito. È la parrocchia “Don Bosco” in un quartiere periferico a sud di Buenos Aires che proprio da Don Bosco prende il nome. Una parte del quartiere è costituita da case piccole e dignitose. C’è poi una zona bassa, una cava da cui hanno tratto il materiale per costruire l’autostrada vicina, che progressivamente si è popolata di gente senza nulla… ne è nato un secondo quartiere popolato ora da circa 60 mila persone che vivono in condizioni disumane in cui i bambini giocano in mezzo a cani randagi, topi e maiali che circolano liberamente su mucchi di spazzatura, un acquitrino perenne sulla parte più bassa della cava… attraversare questo quartiere è ricevere un pugno allo stomaco che lascia senza fiato!
I tre salesiani della comunità che anima la parrocchia sono persone semplici e dirette. Vivono in una casa poverissima dove è difficile trovare qualcosa di superfluo. Sono poveri tra i poveri.
La delinquenza nel quartiere è alta a causa della grande disoccupazione che affligge gli uomini e i giovani. Per dare un lavoro a quanti più possibile i salesiani hanno messo in piedi una cooperativa che raccoglie e differenzia la spazzatura: cartoni e plastica vengono raccolti da uomini che spingono carretti lungo le strade e venduti poi una volta che sono ben impacchettati. Non si guadagna molto, ma meglio che niente. Accanto all’oratorio hanno avviato corsi di formazione professionale brevi e semplici per tenere occupati i ragazzi ed insegnare loro un mestiere: falegnameria, carpenteria metallica, gastronomia. Hanno poi una casa-famiglia, un “hogar” che letteralmente significa “focolare”, che attualmente accoglie 25 ragazzi di strada o che vivono situazioni di violenza e abuso familiare per cui è bene che siano allentanti dal contesto familiare. Gestiscono poi un centro di accoglienza diurno per giovani che fanno uso di droghe, non le droghe che conosciamo noi perché costerebbero troppo e non sono alla loro portata. Questi fumano i residui tossici della lavorazione della cocaina, aspirano i vapori del gasolio, si versano gocce di alcol denaturato sugli occhi perché, mi hanno spiegato i padri salesiani, essendo l’occhio ricco di capillari l’alcol viene assorbito subito dal sangue ed entra in circolo, provocando stordimento quasi immediato. Situazioni così lasciano senza parole… Dopo una giornata insieme a questi ragazzi disgraziati, in cui hanno cercato di tenerli impegnati con attività varie, prima di mandarli a casa, se una casa ce l’hanno, danno loro una sostanziosa cena.
I salesiani ci hanno spiegato che la pancia piena è la miglior terapia contro l’uso di droghe. Perché spessissimo questi poveri giovani si drogano solo perché hanno fame e non hanno nulla da mangiare e un po’ di veleno nel sangue li aiuta a dimenticare la fame e la miseria in cui vivono.
Credo che questi nostri confratelli siano gli eroi silenziosi dei nostri giorni. Uomini semplici e concreti che sanno cosa significa la parola “condividere” e la sanno praticare ogni giorno con chi è più nel bisogno.
Oggi, come nel 1875, a Buenos Aires ci sono giovani poveri ed abbandonati che hanno ancora bisogno di qualcuno che voglia loro bene e li aiuti a crescere.
Giampietro Pettenon
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