Fra i tre arcangeli che festeggiamo il 29 settembre c’è Michele, il quale ha una relazione radicale con la sorte degli uomini dopo la loro morte corporale.
Gli Ebrei tramandano la memoria della difesa da parte di Michele del corpo di Mosé dalle mani di Lucifero, che voleva appropriarsene dopo che il liberatore del popolo dall’Egitto ebbe dato l’ultimo respiro. A ricordare questo episodio, molto espressivo dal punto di vista teologico, è anche l’apostolo Giuda Taddeo nella sua unica lettera indirizzata ai credenti del suo tempo e a noi oggi.
Il pensare ai defunti, che ci hanno affidato il ricordo della loro vita e la richiesta di accompagnarli nell’incontro con l’Eterno, trova un supporto efficace di preghiera se coinvolgiamo la forza stessa di Dio Padre, che si esprime nell’arcangelo. Dalla celebrazione liturgica di oggi alla commemorazione del 2 novembre abbiamo tempo di esplorare questa relazione.
La lettera dell’apostolo Giuda Taddeo
Iniziamo dal testo di san Giuda, che era molto preoccupato della presenza nelle comunità di individui “che stravolgono la grazia del nostro Dio in dissolutezze e rinnegano il nostro unico padrone e signore Gesù Cristo”. È una preoccupazione che nasceva dall’osservazione di fenomeni di divisione nella Chiesa dei primi tempi, con l’azione di persone empie “che provocano divisioni, che vivono di istinti, ma non hanno lo Spirito”.
L’apostolo vuole tenere al centro dell’atto di fede la persona del Figlio di Dio, senza dover ricorrere ad altri “supporti” che qualcuno presume rendano più efficace la Sua azione di salvezza. Evidentemente, ricorrendo a ragionamenti fondati su una “contabilità dello spirito”, qualcuno voleva integrare la morte e resurrezione di Gesù con qualcos’altro di più concreto, visibile, compatibile col pensiero ordinario. Di conseguenza, queste persone svalutavano la coerenza fra fede e vita, consentendosi di filosofeggiare astrattamente, di non interrogarsi sulla condotta quotidiana: fuggendo in definitiva dalla necessità di pensare e di agire avendo Dio come unico assoluto. L’alternativa è quella occorsa agli stessi Israeliti quando furono tentati dal pensare che Mosè fosse l’autore della liberazione.
Questo atteggiamento scorretto denunciato dall’apostolo (che alcune ricostruzioni storiche indicano come cugino di Gesù in quanto figlio Alfeo, fratello di Giuseppe sposo di Maria) si manifestava anche nelle celebrazioni eucaristiche, alle quali alcuni partecipano come a un qualsiasi banchetto, pensando a nutrire il corpo senza la volontà di unirsi al Cristo nell’impegnativo memoriale dell’ultima cena. Per questi comportamenti il commento di Giuda è molto deciso: “Sono nuvole senza pioggia, portate via dai venti, o alberi di fine stagione senza frutto, morti due volte, sradicati; sono onde selvagge del mare che schiumano la loro sporcizia”.
La preoccupazione pastorale di Giuda è che queste persone si rivelino come “astri erranti, ai quali è riservata l’oscurità delle tenebre eterne”, mentre desidera che i credenti possano comparire davanti “all’unico Dio, nostro salvatore per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore… senza difetti e colmi di gioia”.
Il ruolo dell’arcangelo Michele
p>La traccia data da Giuda Taddeo è molto precisa. Ma il suo giudizio non è una condanna, bensì un fraterno avvertimento: siamo consapevoli che la nostra vita è costantemente contesa fra il Male e il Bene, e che la forza per lasciarci pendere da Questo appartiene a Dio!Ed è esattamente quel che afferma – con poche lapidarie parole – l’arcangelo Michele quando riesce a sconfiggere Lucifero ribellatosi al Creatore: “Chi è come Dio?”. La battaglia per affermare la bontà del Padre viene vinta non per l’abilità spadaccina dell’arcangelo, o meglio, la vittoria discende direttamente da Dio.
Ugualmente, quando dovrà impedire che Mosè sia considerato un dio, Michele si limiterà ad agire secondo la volontà divina e non si arrogherà il diritto di condannare Lucifero ma lo rimanderà al giudizio a Dio. Un’affermazione umile di un servitore innamorato del suo signore.
Queste considerazioni possono accompagnare il pensiero per i cari che non possiamo più incontrare in vita, e sono consolazione non nel senso di ammorbidire il dolore ma di spalancare la prospettiva ultima anche di questo: l’eternità dell’Amore per le creature.
Lo spazio in cui questo si attua con maggiore intensità è la celebrazione eucaristica.
L’aiuto dei missionari
Se questo lo facciamo con l’aiuto di testimoni generosi come i missionari, avremo più forte speranza di essere accolti e di vedere accolti con noi i nostri cari. Per questa ragione Missioni Don Bosco offre volentieri ai suoi benefattori e agli amici l’opportunità di mettere nelle mani dei celebranti di tutto il mondo, particolarmente quelli più vicini alle situazioni di povertà materiale e spirituale, le intenzioni per i vivi e per i defunti delle loro famiglie.Si realizza così l’obiettivo complessivo della costruzione di comunità oranti, che scaturiscono dall’incontro con la Carità che la Chiesa incarna nel presente attraverso le opere rivolte alle popolazioni del “Sud” del pianeta. I salesiani puntano in primo luogo sui giovani i quali, insieme con loro, svolgono quotidianamente nella preghiera un prezioso compito di ringraziamento per tutti i benefattori. Sono banchetti eucaristici modesti dal punto di vista esterno (le chiese spesso sono capanne, paramenti e candele sono quel poco che si può portare dietro di sé nell’attraversare la savana o la foresta) ma ricchi nei loro effetti perché Dio ascolta sempre l’implorazione del povero.
Il nome Michele deriva dal suono per i latini dell’espressione ebraica mixaˈʔel [che significa “chi è come Dio?”]: la frase che l’arcangelo disse al fomentatore della divisione fra gli angeli. È la domanda dalla quale può partire l’annuncio della fede cristiana quando il missionario manifesta l’amore del Padre ai figli considerati “ultimi”, lo “scarto” di una società iper-competitiva e cieca. Attraverso il servizio per il loro riscatto – mediante la vicinanza, la cura, l’insegnamento e tutta la realtà delle missioni – si può rendere tangibile il diverso giudizio di Dio sull’uomo. Ma più ancora si può mostrare che vicinanza, cura, insegnamento provengono non dalle persone che li praticano ma da Chi le ha inviate a questo servizio.
L’eucarestia in terra di missione è tangibilmente manifestazione del sentirsi bisognosi dell’aiuto proveniente dal Signore-di-tutte-le-cose: lo dicono i salesiani quando con Missioni Don Bosco condividono la loro esperienza. Possiamo partecipare con loro a quei momenti sostenendo il loro ministero.