Sento che oltre al trauma che ha causato, l’Ebola ha permesso un’accettazione più rapida della realtà della malattia anche se una grossa differenza è che oggi ci sono anche gli asintomatici. Con l’Ebola le persone hanno imparato a reagire a coloro che apparivano malate, ora non sembri malato, ma sei comunque positivo al tampone. (…) L’impatto emotivo di dover attraversare una nuova epidemia che potrebbe causare la stessa devastazione dell’Ebola è davvero unico”, risponde così a Radio Popolare, Yvonne Aki-Sawyerr, sindaca di Freetown, capitale della Sierra Leone, colei che è stata responsabile del Centro Nazionale di risposta contro l’Ebola durante l’epidemia che ha colpito il Paese tra il 2014 e il 2015.
I contagi da covid-19 in Sierra Leone sono ancora contenuti, ma nelle ultime settimane la crescita è evidente. La sfida relativa a mettere in pratica le misure sostenute dall’OMS (lavaggio delle mani e distanziamento sociale) è iniziata fin dal giorno del primo contagio nel Paese. Il 47% della popolazione della Sierra Leone non ha accesso all’acqua corrente e il distanziamento fisico è molto difficile da attuare poiché il 35% della popolazione vive negli slum e negli insediamenti informali dove è impossibile metterlo in pratica.
Riguardo la situazione ospedaliera il clima è abbastanza teso. I medici hanno indetto uno sciopero per protestare contro l’uso improprio di fondi per contrastare il diffondersi dell’epidemia, la mancanza di dispositivi di protezione individuale, come guanti, tute e mascherine e il mancato pagamento del bonus promesso dal governo destinato a chi lavora nei centri di isolamento.
Al momento la più grave conseguenza del diffondersi del virus è la povertà. Il coprifuoco e la chiusura di numerose aziende, fabbriche e miniere sta distruggendo un’economia già molto fragile. La Sierra Leone è uno dei paesi più poveri al mondo, più della metà dei suoi 7.8 milioni di abitanti vive con meno di 2 dollari al giorno.
I missionari salesiani non si sono scoraggiati e stanno cercando di fare di tutto per sostenere la popolazione. Il progetto del bus del sorriso, l’unità mobile che solitamente gira fra le strade dei quartieri poveri di Freetown per individuare e aiutare i bambini e ragazzi di strada, ma anche le giovani donne che si trovano in situazione di prostituzione, ha subito dei rallentamenti. Il governo ha imposto il coprifuoco dalle 9 di sera alle 6 di mattina e ha vietato assembramenti di oltre 10 persone, ma l’intero staff continua a lavorare. I membri del personale escono in strada dalle 10 alle 16 e l’autobus Don Bosco ha ricevuto un permesso speciale delle forze di polizia per continuare le attività in strada.
Nel mese di giugno “il bus che distribuisce sorrisi” ha accolto circa 500 nuovi ragazzi, di cui 100 sono stati già reinseriti in famiglia. Il lockdown ha avuto un impatto molto forte su questo programma, ma i salesiani non vogliono abbandonare le ragazze e i ragazzi in strada.
In risposta allo stato di emergenza, i missionari stanno portando avanti anche numerosi percorsi di sensibilizzazione sulle misure di comportamento in diverse zone della città di Freetown, come all’interno delle baraccopol di Mabela, Susan’s Bay and King Jimmy e collaborando con il carcere Pademba, dove da anni lavorano fornendo supporto e riabilitazione dei carcerati.
I salesiani sono l’unica istituzione che lavora con i detenuti, un ruolo molto importante soprattutto in questa situazione complessa in cui la paura per il diffondersi del Covid-19 ha portato a una rivolta che si è conclusa con disordini, incendi e morti all’interno del carcere. Una sommossa scoppiata poco dopo la conferma del primo caso, il divieto di lasciare le celle e l’interruzione delle visite in un carcere senza telecamere di sicurezza e con un numero di detenuti cinque volte superiore alla capienza massima.
“Nella cappella ci sono stati alcuni danni e nella sala Don Bosco, dove 225 detenuti ricevono un pasto extra ogni settimana e c’è una sala computer e una biblioteca, tutto è andato distrutto”, riferisce il missionario salesiano don Jorge Crisafulli all’Agenzia Info Salesiana. La polizia e l’esercito hanno aperto il fuoco in modo indiscriminato e dopo aver represso le rivolte, per tre giorni non sono stati distribuiti cibo, acqua e cure mediche.
I Figli di Don Bosco sono riusciti ad effettuare un accordo con le forze di polizia per cercare di liberare i minori che sono detenuti per piccoli reati (vagabondaggio, essere parte di bande, furti di telefono ecc) e concordare diverse attività all’interno del carcere, ovvero:
- effettuare visite mediche ai feriti e agli ammalati,
- rinnovare un settore per ospitare i contagiati da coronavirus,
- trasformare la cappella della prigione in una clinica per isolare i casi sospetti, dato che l’ospedale è stato completamente bruciato e la farmacia distrutta,
- distribuire un pacco alimentare composto da manioca essiccata e macinata, latte in polvere e zucchero, acqua potabile in bustine e un frutto per integrare l’unico piatto di riso che i detenuti ricevono quotidianamente.