Il mondo dei media vive di storie di successo, quando non ricerca il dramma su cui creare emozione nel pubblico. È difficile trovare attenzione quando si tratta di vicende di ordinario coraggio che tuttavia segnano cambiamenti positivi di vasta portata.
Il caso dei salesiani a Medellin in Colombia è emblematico: un centro di aggregazione dei giovani, come migliaia di oratori nel mondo, affronta un tema chiave del Paese, quello dello smantellamento della spirale di violenza sui ragazzi e sulle ragazze forzati a entrare nelle forze armate che per decenni si sono opposte al governo centrale. Una iniziativa coraggiosa se consideriamo il diretto contrasto con i metodi spicci di militari che non hanno mai mostrato pietà per avversari esterni e dissidenti interni, ma anche se osserviamo la concorrenza indiretta così attuata ai protagonisti del traffico internazionale di cocaina che in quella città hanno la loro fortezza. La droga è servita anche a finanziare l’acquisto di armi e il mantenimento delle squadre irregolari, così come a condizionare l’obbedienza dei sottoposti.
Quando un ragazzo o una ragazza arrivano a Ciudad Don Bosco stanno riprendendo la misura del mondo. Spiazzati perché trattati con delicatezza, domandano di questo “don” che vorrebbero conoscere visto che a lui è intitolata la struttura. Don Rafael Bejarano è stato il direttore del centro fino allo scorso anno: è stato il volto sereno di un salesiano che ha reso “visibile” il santo dei giovani.
La storia di Ana
Dopo una paziente attività di riattivazione della coscienza di persone che da piccole sono state preda della violenza affinché imparassero a replicarla verso gli altri, i risultati hanno incominciato a vedersi. Tre anni fa Missioni Don Bosco invitò a Valdocco per descrivere il percorso di recupero dei ragazzi ex soldato l’allora direttore di “Ciudad Don Bosco” a Medellin don Rafael Bejarano. Con lui c’era una ragazza che affrontò il viaggio in Italia per testimoniare in prima persona i passi compiuti. Intimorita dall’inatteso compito assunto fuori dal suo Paese, mostrò riconoscenza ai salesiani per essere stata liberata dal peso gettatale addosso da adulti che l’avevano profanata nella psiche e nel corpo. Accolta per costruire da capo la propria vita, quella ragazza è ormai una giovane avviata alla piena autonomia.
È stata recentemente intervistata da una televisione colombiana: ha raccontato la sua esperienza che l’ha portata oggi a essere infermiera in un ospedale, una professione che sancisce il cambiamento di direzione della sua esistenza. Quanto ha subìto nel passato è diventato motore di un impegno che genera sollievo e cura al dolore e alla malattia di tante persone.
Ha dovuto cambiare nome per rendere difficile il suo riconoscimento da parte di chi l’aveva tenuta sotto sequestro per servire capi militari e imbracciare le armi: certe marchiature purtroppo non si possono cancellare dai registri dei violenti. Ma il viso sereno e sicuro che risponde all’intervistatore fa di lei una testimone importante per le altre centinaia di ragazze e ragazzi che hanno intrapreso un analogo percorso di reinserimento sociale: l’opera “Ciudad don Bosco” è incoraggiata a proseguire il suo intervento.
La terapia della relazione
L’accoglienza degli ex soldati non costituisce un isolamento dal mondo – nonostante tutte le indispensabili precauzioni per garantire la sicurezza del luogo – poiché la creazione di relazioni fa parte della “terapia”. Per questo motivo l’opera di Medellin non ha mancato di coinvolgere i suoi ospiti anche in questa pandemia da Covid-19. Emergendo le difficoltà di approvvigionamento, i salesiani hanno preso a distribuire generi alimentari alla popolazione bisognosa, coinvolgendo come possibile gli stessi ospiti dell’opera: solidarietà e valorizzazione di ciascuno sono alla base dell’intervento educativo. Nella struttura gemella di Cali altri giovani ex soldati hanno prodotto mascherine protettive per chi non poteva procurarsele.
Lo scorso autunno si è svolta a Ciudad Don Bosco la fase finale del “Festival dei Talenti”, uno spazio per mostrare le capacità artistiche di bambini, giovani e adolescenti. Un centinaio i partecipanti che sono giunti alle finali, svoltesi davanti a un pubblico di studenti, docenti, dirigenti e visitatori. “L’obiettivo – spiega l’attuale direttore don Carlos Manuel Barrios – è stato quello di far conoscere, promuovere e diffondere l’arte, in uno spazio di scambio culturale in cui stereotipi e pregiudizi vengono messi da parte e l’identità di ciascun partecipante viene rispettata in un’atmosfera di cordialità e inclusione”. Anche questo fa parte del recupero globale degli ex ragazzi soldato.