La regione del Kasai è una terra occupata da milizie armate, avanguardie delle imprese straniere che vogliono impossessarsi delle miniere di diamanti, di cobalto, di zinco e di rame, oltre che di oro. Il governo centrale non ha la forza di contrastare questa invasione.
Fin da piccola è vissuta in un villaggio che lo scorso anno è stato meglio per lei abbandonare, dopo che le milizie (non si sa più a quale comando obbediscano) hanno scelto quella zona per ingaggiare un conflitto a fuoco con le forze governative. Un giorno i colpi di mortaio sono arrivati vicinissimo alla sua abitazione. Quando è cessato il fuoco, Nala ha cercato i suoi parenti ma nessuno li ha più visti: forse sono stati dilaniati da una bomba, forse – si spera – sono scappati alle prime avvisaglie del combattimento.
Naeema in poche ore ha dovuto comprendere di essere rimasta del tutto sola, con i suoi quattro figli. Ndidi, la figlia più piccola, non poteva affrontare un viaggio. Naeema aveva deciso di rimanere sperando in una cessazione del conflitto, come era successo in passato.
La popolazione fugge verso le grandi città dove spera di trovare rifugio. Il giorno del bombardamento Naeema ha raccolto i pochi beni che poteva caricarsi in spalla oltre alla figlia più piccola per affrontare insieme altri altri tre figli un lungo percorso, un po’ a piedi un po’ sui mezzi di passaggio. Restare nel villaggio voleva dire ormai lasciarsi uccidere al prossimo attacco, o violentare dai soldati una volta arrivati all’obiettivo.
Non conosceva la strada: sapeva solo che doveva lasciarsi alle spalle il Kasai e andare verso la capitale, Khinshasa. Non aveva idea di quanto fosse lungo il percorso. Sapeva solo che presto avrebbe dovuto attraversare un fiume, e che avrebbe avuto necessità di superarlo non sapendo nuotare insieme con i quattro piccoli. Il buon Dio e gli antenati li avrebbero aiutati. I circa 600 chilometri sono passati sotto i suoi piedi correndo rischi di ogni tipo, alimentandosi con l’aiuto a chi incontravano.
Una sera, ormai prossimi alla città, si è trovata di fronte a una collina. Qualcuno le ha detto di salire e di provare a rivolgersi a una chiesa cattolica che avrebbe potuto forse darle ospitalità per proseguire il giorno dopo. Naeema ha imparato così il nome di Don Bosco: precisamente quello del Centro giovanile Don Bosco Lukunga, legato alla parrocchia salesiana.
La sua vita è ricominciata lì. Le hanno spiegato che la capitale non è capace di dare casa e cibo a cinque profughi. Se avesse avuto buona volontà, avrebbe potuto diventare anche lei una delle oltre cento donne di quella municipalità che coltivavano i terreni messi a disposizione dal Centro: era sembrata subito una donna coraggiosa, e la lunga fuga con i figli dal Kasai era un attestato di determinazione e del diritto di crescerli con dignità.
Ora anche Naeema vuole iniziare il corso di specializzazione in orticoltura, vuole dotarsi di tutti gli strumenti necessari e di sementi buone. Si farà un debito per questo, ma è sicura di pagarlo nell’arco di un solo anno. Almeno, così le hanno spiegato. Kambo, il figlio maggiore, ha già detto che l’aiuterà nell’orto e anche al mercato. La mamma è d’accordo, purché il ragazzo non rinunci a studiare: con la vendita delle verdure in sovrappiù potrà avere denaro per vestirlo adeguatamente e mandarlo a scuola. Ndidi ha già visto che un’amica di mamma alleva una coppia di conigli: ne vuole uno alla prossima nidiata. Darà da mangiare le carote che mamma sa coltivare molto bene.