Per impastare i primi mattoni di una nuova missione occorre usare come materia prima i rapporti umani. Che si tratti di trovare un modo per convivere con la povertà o di avviare una nuova presenza salesiana, sono le relazioni che costruiscono la crescita di una comunità.
Il Gambia è un piccolo stato africano abbracciato su tre lati dal Senegal e provvisto di uno sbocco sull’Oceano Atlantico. Gli anni del colonialismo hanno lasciato come retaggio alcuni edifici in stile europeo nella capitale Banjul e dei confini tracciati con il righello, indifferenti al fatto che la maggioranza della popolazione appartiene alla stessa etnia che vive in Senegal. I ventidue anni di dittatura hanno nascosto il paese alla ribalta internazionale e solo di recente i gambiani hanno potuto avere accesso alla democrazia, con la conseguente riscoperta della libertà ma anche con l’improvvisa consapevolezza che ora occorre assumersi delle responsabilità. Un popolo costretto all’obbedienza fino all’altro ieri si ritrova a doversi reinventare il proprio modo di stare al mondo, in un contesto che porta ancora i segni di un regime in cui l’iniziativa personale era bandita, il pensare anche.
L’attesa per il traghetto con il quale raggiungiamo la capitale è una metafora perfetta di questo disorientamento. All’attracco si accalca una folla a piedi, carica di ceste, sacchi, sedie, materassi, le donne con i loro bambini avvolti nella stoffa intorno al corpo riescono a trasportare pesi inverosimili. Scattano tutti in avanti come un sol uomo per accaparrarsi un posto comodo per la traversata, incuranti del fatto che il traghetto deve prima far scendere i nuovi arrivati. Tra questi ultimi un pastore con il suo gregge di pecore sta cercando inutilmente di farle sbarcare dalla nave, ma le povere bestie sono più disorientate di lui e non capiscono cosa stia succedendo e quale sia la direzione da prendere. Nessuno interviene, nemmeno gli addetti del traghetto. Nessuno sa cosa fare, fino a quando un passeggero assume l’iniziativa e afferra due pecore per il collo spingendole verso l’uscita.
In un contesto del genere giudicare senza conoscere non ha alcun senso, la prima cosa da fare è cercare di capire le dinamiche di tutto quello che ruota intorno a te e provare a comprendere come vive la gente.
È quello che stanno facendo i salesiani dal loro arrivo lo scorso ottobre a Kunkujang, un piccolo villaggio 30 km a sud di Banjul.
Un indiano, un polacco Padre Piotr, un nigeriano e un peruviano compongono la piccola comunità che è stata chiamata a dare nuovo slancio a una nobile ma vetusta missione fondata dai padri Spiritani più di cinquant’anni fa. La nostra visita inizia letteralmente alla cieca. Arriviamo di notte e la mancanza di segnaletica stradale ma soprattutto di illuminazione ci fa sentire persi, nel senso letterale del termine. Però c’è della bellezza in questa notte fonda, basta alzare lo sguardo al cielo per capire cosa noi occidentali non possiamo più ammirare: una stellata meravigliosa ci accompagna davanti al cancello della missione, dove padre Piotr ci aspetta.
Solo l’indomani mattina capiamo dove siamo finiti. Kunkujang è un villaggio con un’unica strada che lo attraversa. Niente asfalto, niente lampioni, nessun marciapiede. Pensando alla stagione delle piogge che sta per arrivare chiediamo a Piotr come pensano di potersi spostare su quella sabbia mista a terra che diventerà fango e la risposta è disarmante, “Quando capiterà lo capiremo, forse”.
Usciti di primo mattino dalla chiesetta in cui si è celebrata la messa ti arriva alle narici l’odore del sale del mare, che è a 1 km di distanza in linea d’aria, e dei piccoli fornelletti a carbone che davanti alla capanne cucinano il pasto per i bambini prima che vadano a scuola.
Uno di loro si avvicina incuriosito, ha in mano un panino con la frittata grande come il suo avambraccio ed è intento a non sporcarsi troppo la divisa scolastica, la maglietta e i calzoncini che rappresentano il “vestito buono”. A scuola bisogna andare vestiti bene, anche se si deve camminare per qualche kilometro scalzi o con le infradito, solo i più fortunati possono permettersi delle scarpe. Perché la missione di Kunkujang non è solo un paese, si estende per miglia e comprende altri venti villaggi e 70 compounds, piccoli agglomerati di due o tre capanne.
La comunità comincia ad animarsi, circola qualche bicicletta, i bambini corrono tra le capanne insieme ai maialini, che qui la fanno da padroni. Il Gambia è un paese in prevalenza musulmano ma Kunkujang ha una particolarità: è un villaggio interamente cattolico, ad eccezione di un’unica famiglia musulmana che convive pacificamente con il resto degli abitanti. Questo perché negli anni ’70 un gruppo di profughi provenienti dalla Guinea Bissau, all’epoca devastata dalla guerra, ha trovato rifugio qui e ha messo radici in questa terra.
L’arrivo della corriera è segnalato dal clacson che l’autista suona insistentemente, siamo lontani anni luce dalla puntualità giapponese e questo è l’unico modo per sapere quando le persone potranno prendere il mezzo e recarsi in città, dopo aver caricato i propri averi – magari qualcosa da vendere al mercato – sul tetto.
A Kunkujang ci sono le scuole, dalla materna alle superiori: 1000 abitanti e 2000 studenti, un paradosso per un paese così piccolo che però accoglie anche la popolazione studentesca di tutti i villaggi limitrofi. Gli edifici scolastici sono fatiscenti, nella scuola dei bambini mancano addirittura i bagni, banchi e sedie di legno dimostrano tutta la loro vita vissuta in terra di missione.
Gli unici edifici in muratura sono quelli scolastici e quelli della missione, ma entrambi denunciano l’assenza di manutenzione e mettono in mostra il loro declino, che negli ultimi anni si è manifestato ogni anno sempre più. Il tetto della scuola superiore è sfondato, quelli che una volta erano i laboratori oggi sono cibo per le tarme.
Come ridare linfa a questa missione? Non entrando a gamba tesa in una realtà consolidata, non costruendo immediatamente nuovi edifici, anche se ce ne sarebbe un gran bisogno.
Bisogna ripartire dai bambini. In Gambia il 37% della popolazione ha meno di 14 anni e il 68% non supera i 30, dati che fanno capire quanto sia di fondamentale importanza investire su di loro per il futuro di questo paese. Sono questi i mattoni su cui costruire una presenza che abbia un impatto positivo su queste persone. Creare momenti di aggregazione in cui possano incontrarsi, giocare, interagire, svolgere delle attività anche quando piove. C’è un edificio nella missione che funziona come un centro polifunzionale e che i salesiani hanno messo a posto, ritinteggiando le pareti e riparando il tetto. È il nuovo oratorio di Kunkujang, che ha bisogno di tutto. Mancano i palloni per giocare, non ci sono i bagni, ma non importa. Missioni Don Bosco sosterrà questa missione seguendo le indicazioni dei quattro missionari che vi lavorano. Quindi oratorio sia, così come a metà Ottocento Don Bosco iniziò proprio da un oratorio la sua missione in favore dei bambini poveri di Torino. Date a un bambino un luogo in cui giocare e lui vi sarà grato per sempre, regalategli la possibilità di crescere sereno e da grande sarà un adulto compassionevole, un padre e una madre dediti al benessere dei figli che cresceranno insieme. Perché i bambini hanno dalla loro l’entusiasmo, non si fermano di fronte alle difficoltà, indietreggiano solo di fronte a chi li rifiuta.
In un’aula della scuolina elementare ho incontrato due fratelli, seduti al primo banco. Lui 7 anni, lei 3 o 4. Anche se non ha l’età per frequentare la scuola accompagna tutti i giorni suo fratello in classe e segue le lezioni, probabilmente capendo la metà di quello che viene spiegato dalla maestra. Non so se mi ha fatto più tenerezza l’amore con cui il fratello la aiutava ad impugnare correttamente la matita o la concentrazione e la serietà che la bimba metteva nel tracciare i segni sul foglio. Aveva uno sguardo che sembrava dire “Mio fratello è il mio supereroe, mi abbraccia e mi protegge e io lo accompagno a scuola, imparando a scrivere le mie prime parole. Tutto il resto me lo insegna lui”.
Questi bambini hanno un’enorme voglia di apprendere, si meritano di avere la possibilità di imparare a vivere, non solo a sopravvivere. I salesiani sono ripartiti da loro, da un oratorio che li accoglie e se ne prende cura. La ristrutturazione dovrà aspettare che ci siano le risorse economiche, la manutenzione del cuore è invece già partita alla grande.