Cinque buone ragioni per donare il 5×1000 a Missioni Don Bosco secondo Fiona May

Una sintonia di spirito

Quando mi hanno proposto di diventare “testimonial” di Missioni Don Bosco mi sono domandata: “Perché proprio a me?”.

Ho avuto un bel colloquio con il presidente di Missioni Don Bosco, Giampietro Pettenon, e con i suoi collaboratori. Mi sono convinta subito della serietà del lavoro che svolgono, loro qui in Italia e centinaia di missionari salesiani nel mondo. E dato che a me piacciono la concretezza dei progetti e il raggiungimento dei risultati, ho sùbito trovato sintonia con lo spirito di questa Associazione.

Poi però mi sono domandata se oltre alla mia notorietà, principalmente di atleta che è stata campionessa mondiale di salto in lungo, ha provato l’ebbrezza della medaglia olimpica, ci sia qualcosa di me e della mia storia che può servire a far conoscere più diffusamente i progetti sostenuti da Missioni Don Bosco. Allora ho cercato qualche similitudine fra esercizio agonistico e sostegno alle opere dei salesiani. Ne ho contate almeno cinque sulle dita della mia mano.

1) Allevare “campioni” della vita

La prima, basilare similitudine è la scommessa sui futuri campioni. Un piano di allenamento, la dedizione di un coach, le energie sottratte ad altro si giustificano se pensiamo che la persona che vediamo oggi in un certo stato muscolare e psichico possa domani svilupparsi e ottenere i risultati sperati migliorando le sue prestazioni. Possiamo anche non raggiungere il risultato di vedere in pista un campione: intanto però avremo preparato una persona ad affrontare con metodo e con costanza la propria crescita.

I salesiani fanno questo: si dedicano ai giovani e ai più piccoli vedendo dentro li loro il futuro, portandoli tutti ad “allenarsi” – principalmente con lo studio ma anche con le relazioni che si creano a scuola o in oratorio – a diventare persone ognuna in grado di correre la gara della propria vita. Se ci saranno campioni, risultati di particolare successo, ciò sarà un bene per loro e i loro cari, per i loro sostenitori e ammiratori. Ma questi vengono dopo: prima c’è appunto la scommessa su ciascuno dei 1.140.000 studenti che ogni anno affrontano un percorso in una delle 4.469 scuole salesiane nel mondo.

2) Sostenere gli eroi della generosità

Il mondo dello sport, quello scevro da doping e da interessi speculativi, è un mondo dove ho vissuto l’incanto di tanti che ti vogliono bene, dove c’è molta positività che si trasmette per sostenere il tuo sforzo. Soprattutto chi si trova davanti alle sfide più impegnative avverte la spinta che viene da chi ti allena o da chi ti cura dal punto di vista sanitario, il silenzio attento o l’urlo di sostegno del pubblico che ti vede in gara.

Sapere che ci sono dei missionari, persone che hanno lasciato il proprio Paese o la propria comodità per mettersi a servizio di persone bisognose mi impegna a pensare di dover essere anche io una loro “tifosa”, una che può far sentire il proprio incoraggiamento a fianco di chi affronta la sfida in quel momento. Ho percepito la coralità del lavoro missionario: per una persona che si trova, magari da sola, ad attuare una presenza di amore in un lontano villaggio, c’è un seguito di amici che lavorano per lui, di sconosciuti che donano qualcosa per sostenerli economicamente.

3) Il coraggio di porsi nuove sfide

Ogni pratica sportiva richiede equilibrio. Dosaggio di energie, assunzione di cibo con regolarità e misura. Deve far crescere la stima di sé ma evitare di credersi delle macchine programmabili per il successo a tutti i costi. Educa a reggere le fatiche apparentemente inutili e soprattutto a reggere i piccoli e grandi fallimenti. È una scuola di vita e, paradossalmente più impari ad “incassare” colpi duri più aumenta la tua resistenza e la capacità di alzare il livello dell’asticella. Per me che faccio salto in lungo e non in alto, significa andare ogni volta un poco oltre la distanza raggiunto in precedenza, mettere qualche centimetro più in là.

I salesiani accettano le sfide ad andare oltre, percepiscono che la misura del loro servizio non può essere il mantenimento uno standard, ma il di più che consente di vedere un giovane che non entra nello spazio dell’oratorio, di incontrare una giovane madre che non ha marito, di dare opportunità a chi è tagliato fuori dalla sua comunità o dal suo territorio. E ci vuole equilibrio: non basta la buona volontà ma occorre un progetto efficace e sostenibile. Per non perder il fiato a metà corsa.

4) Mettersi davvero nel gioco

Se devo scegliere un dito al quale legare un laccio, è l’anulare: lo stesso dito in cui infiliamo l’anello più importante, quello che ci lega a una persona o a una istituzione.

Gli sportivi devono praticare l’attività senza tanti oggetti addosso. Anche l’anello di fidanzamento può impigliarsi o fare del male a un altro nella foga di una prestazione. Per me è un richiamo all’essenziale, alla considerazione che tutto quello che ti serve deve stare dentro di te e uscire da te per trasformarsi in risultato. Dopo l’esercizio o la gara sono pronto a tornare tutta me stessa, con i miei legami e i loro simboli.

I Figli di Don Bosco hanno questo originale modo di stare in mezzo ai ragazzi senza la protezione di un abito religioso ma rivestendosi solo di quella simpatia che crea legame, di quel sorriso che apre alla fiducia, di quella disponibilità a entrare nel gioco senza pensare al pantalone che può sdrucirsi con una scivolata. Ma sono pronti poi a rimettere il crocifisso al collo, a dare ragione della loro fede: perché il loro non è un servizio sociale ma un esercizio di carità cristiana.

5) Puntare al risultato migliore

Lo sport come lo intendo io non è il centro della vita, anche se a me ha dato una professione. Qualsiasi attività umana non deve diventare l’etichetta con cui si definisce una persona: oltre che atleta, mi sento donna cosciente, mamma attenta, operatrice della cultura, cittadina consapevole… e tutto il resto della mia identità, che si chiama Fiona May e non è l’immagine pubblica. Al fondo mi sento una persona fortunata che oggi può mettere a disposizione sé stessa più che la propria fama per aiutare altri a raggiungere il podio più alto possibile nelle sue condizioni.

Mi stupisce che una famiglia religiosa oggi diffusa in 3.500 case su 133 Paesi possa essere nata da un ragazzo come Giovanni Bosco che aveva solo 9 anni quando ha intuito quale sarebbe stato il suo “incarico” nel mondo: radunare i giovani per difenderli dall’aggressione di qualsiasi cosa o persona che possa procurare loro del male. E che quegli stessi giovani siano diventati protagonisti a loro volta di un sistema educativo così esteso e apprezzato. I piccoli possono inaspettatamente costruire un mondo migliore semplicemente realizzando le loro passioni più sane, seguendo il loro sogno più puro. E per questo ho deciso che anche io avrei messo a disposizione chi sono per partecipare a questo movimento, con i piedi per terra e il cuore in cielo.

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