Il ricordo di don Filiberto Rodríguez Martín si fa presto memoria di un maestro di vita nell’intervista a Marco Faggioli, direttore di Missioni Don Bosco. Spagnolo, don Filiberto fu coinvolto in un gruppo scelto di lavoro che nel 2008 ebbe il compito di dare un indirizzo aggiornato alla presenza salesiana sia nel suo Paese (dove ha profondissime radici) sia nelle nuove terre di missione.
Divenne consigliere della Congregazione per l’Europa dell’Ovest, consapevole che la frontiera della missione è anzitutto nella cultura attuale del Vecchio Continente. Chiamato per la sua sensibilità a occuparsi dei più vulnerabili, fu una naturale evoluzione del suo ministero accettare l’incarico di responsabile della visitatoria a Luanda in Angola.
È in questo Paese che il giovane Faggioli appena inserito nel VIS (l’Ong voluta dai salesiani in Italia per affiancare i progetti di sviluppo a fianco dei missionari) incontrò don Filiberto. Si trattava di gettare le basi formali e sostanziali dell’ufficio di pianificazione e di sviluppo (PDO), occorrevano l’entusiasmo di una forza nuova e la competenza acquisita negli studi universitari. Ma don Filiberto diede subito la traccia del lavoro: «Metti giù la borsa con tutti i tuoi progetti e vieni con me a incontrare le persone». Era il giugno 2010.
“Andammo a trovare i ragazzi che lui visitava tutte le sere” ricorda Faggioli, “soccorsi dal Centro Salute che si trova a un isolato dalla sede ispettoriale, diventato un punto di ritrovo per una moltitudine di ragazzi di strada. «Sono i nostri datori di lavoro» dichiarava don Filiberto, «tutto ciò che facciamo deve essere rivolto a loro»”.
Che la vocazione missionaria sia rivolta anzitutto agli ultimi della società era la convinzione di don Filiberto, senza ostentazione; consapevole di essere immerso in un mare di contraddizioni sociali. L’Angola è il primo produttore di diamanti al mondo, il secondo per estrazione di petrolio in Africa. Oltre alle materie prime, il Paese dispone di acqua in abbondanza, di un vasto territorio coltivabile a fronte di una popolazione meno densa che in altre parti dell’Africa, e gode di uno sbocco sull’Oceano che offre opportunità commerciali sul piano globale.
Quelle che sono le ricchezze del Paese sono anche le ragioni della sua arretratezza. Dopo il tempo della colonizzazione portoghese, non c’è stata pace per la costruzione della nazione. Conclusa la lotta di liberazione, nel 1975 è iniziata la guerra civile fra le diverse anime politiche che, con brevi interruzioni, si è conclusa solamente nel 2002.
Don Filiberto ha colto anche il respiro della stagione della ricostruzione. La prima ondata di salesiani provenienti dal Sud America aveva dato all’azione missionaria l’impronta “sociale” di soccorso alle persone più povere; il mandato di don Filiberto era quello di passare alla fase di costruzione di un tessuto culturale ed economico attraverso la formazione scolastica e professionale. Più di una generazione di Angolani era cresciuta senza istruzione nei 30 anni di conflitto. Il termine di questa fase comportava anche l’assistenza alle migliaia di giovani e di ragazzi che dalle campagne si riversava nelle città, soprattutto nella capitale del Paese, alla ricerca di lavori di pura manovalanza. Per il nuovo “ispettore” salesiano di Luanda si trattava di dare risposta agli sbandati con centri di accoglienza e con case famiglia, di costruire con loro un’identità mediante la reintegrazione nella società e l’inserimento nel mondo del lavoro.
L’impegno di don Filiberto diventò febbrile. La sua era la mistica della carità. Il confratello don José Antonio Leon, lo richiamava benevolmente alla cura di sé: «Ti stai consumando, sei un disastro per la tua salute», È il “fuoco della missione”, possiamo dire in termini meno confidenziali, che per ardere ha bisogno molte volte del legno delle persone. Il missionario lo mette nel conto. E non ne fa un motivo di vanto, non lo fa per mettere se stesso in evidenza. Anzi, lo rende sempre più disponibile anche ad accompagnare l’esperienza di altri. Così è stato nell’incontro con Faggioli, anche quando è tornato con la moglie subito dopo il matrimonio.
«Una nuova presenza in missione è un dono, e si deve stare insieme, camminare insieme»: questo insegnava don Filiberto ai giovani volontari, e ricorreva spesso all’abbraccio anche fisico per rendere palpabile il suo animo: “Prima che avesse un nome, lui praticava la ‘abbraccio-terapia’, e con questa ci comunicava positività, il senso altissimo dei valori che era lì a testimoniare” ricorda con commozione Faggioli.
E poi la domanda ricorrente, non retorica, dopo aver considerato tutto e tutti: «Tu, come stai?». Ossia: va bene il tuo impegno, vanno bene le cose che stai facendo, bene i risultati… ma alla fine dei conti, come sta il tuo animo? È la domanda dell’educatore vero, quello che ti guarda negli occhi non per scoprire se ci sia un segreto non dichiarato ma per entrare in rapporto con l’anima dell’interlocutore. “Como estás?” risuona ancora come l’interesse principale di don Filiberto verso chi era al suo fianco. Prima la qualità dello spirito del missionario, poi le opere.
Occuparsi degli altri tanto da sembrare persi, porre il baricentro della propria giornata negli altri… Trascurare se stessi provoca purtroppo la caduta delle difese del corpo: un’infezione polmonare mal curata portò don Filiberto a gravi complicazioni che richiesero il ricovero in ospedale, ma vi giunse quando ormai era allo stremo. Attesa e speranza, poi si presentò l’insufficienza renale. Entrò in coma e vi rimase un mese fino all’arresto cardiaco, il 7 maggio 2019.